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 2011  febbraio 16 Mercoledì calendario

GHEDDAFI S’AGGRAPPA AL LIBRO VERDE E AI PETRO-DINARI

Tripoli. Zawia è un’anonima cittadina a circa quaranta chilometri da Tripoli e a un centinaio dal confine tunisino. Del passato coloniale italiano è rimasto solo una chiesa in disuso e qualche, inglobati in uno sviluppo caotico. Con oltre 150mila abitanti e una raffineria di petrolio che produce 120mila barili al giorno, è la quarta città della Libia. Mentre i paesi vicini sono percorsi da cambiamenti epocali, qui si continua tranquillamente a vivere, lavorare e costruire. E si attende senza grandi timori o aspettative la “Giornata della Collera” - ispirata alla rivolte di Tunisia e d’Egitto - che la Conferenza Nazionale per l’opposizione Libica ha fissato per domani.
La costa libica, e non solo, è un cantiere ininterrotto. Le gru infatti fanno concorrenza ai minareti. E il piano di investimenti messo in campo per il decennio 2010-2020, ben 150 miliardi di dinari da investire in infrastrutture, porterà alla realizzazione di tre aeroporti, dodici porti e 300mila appartamenti, oltre alla sistemazione della rete elettrica e fognaria in quarantuno città. Nel piano è prevista anche la creazione di sessanta zone industriali e 250mila nuovi posti di lavoro.
Al Jewel Hotel di Zawia, complesso alberghiero a quattro stelle di recente costruzione, si sta svolgendo la sesta convention dei membri del movimento europeo per la democrazia diretta. Il tema è ”la diffusione del pensiero Jamahiriano nel mondo”. Un centinaio i convenuti, la maggior parte proveniente dall’Europa Orientale. Un incontro durante il quale avvengono interminabili discussioni su capitalismo, socialismo, Libro Verde di Gheddafi e si delineano progetti e idee per esportare i fondamenti della democrazia diretta in salsa libica nei paesi occidentali.
È il regno dei comitati rivoluzionari, l’ossatura della rivoluzione portata a compimento nel 1969 da un allora giovane Muhammar Gheddafi. «Io c’ero, a Sebha, quando il Colonnello parlò al popolo», racconta un anziano signore. Ha la pelle scura, come lo è quella di chi viene dal sud della Libia. «Ero un ufficiale medico. Già dagli anni cinquanta avevo aderito a gruppi rivoluzionari. E come me molti altri soldati. Il nostro modello era Nasser».
Il pizzaiolo del locale all’angolo è tunisino, così come il cameriere. Vengono da Sousse. «Da noi non c’è lavoro» dicono quasi all’unisono. Egiziani, ciadiani, nigerini, senegalesi, marocchini ma anche dal sudest asiatico. L’Africa qui è presente quasi al completo con tutte le sue sfumature di linguaggio e di colori. Tra gli spazzini, i camerieri, i domestici, i muratori, trovare un libico è quasi impossibile. I lavori di fatica sono monopolio degli immigrati, un indicatore chiaro del benessere presente nel Paese.
Musa Alì è il giovane direttore generale del Jamahiriya Media Center, una società statale che possiede canali televisivi, radio e giornali e che pubblica anche libri e ha una sezione di produzione per musica, teatro e cinema. «Credo che quello che è successo in Tunisia e in Egitto sia un’espressione del potere popolare. La gente ha sofferto per decenni, privata del diritto al lavoro, in sistemi soggetti alla totale corruzione; mi dispiace solo che abbiano chiesto di fare delle elezioni perché i partiti monopolizzano il potere del popolo e quello che è successo si verificherà nuovamente. Come società abbiamo solo dieci mesi di attività - ci tiene a precisare Musa - ma abbiamo già in cantiere molti progetti. La nostra compagnia è statale, l’unico modo per garantirle libertà. Quando si lega un media ad una proprietà privata, i giornalisti si subordinano ad una sistema capitalistico e anche quando sembra che abbiano libertà di parola questa è sempre nei limiti del suo proprietario di riferimento».
Ma ci sono anche altre pubblicazioni oggi in Libia, come Oea e Qurina, che sono tenute in mano da privati e sono considerati liberi...»
«La verità è che anche tra noi c’è un sacco di gente che è corrotta. Ci sono persone, come Musa, che ci credono veramente, ma molti vengono a questi incontri solo per farsi vedere e mangiare gratis al ristorante», dice un responsabile dei Comitati Rivoluzionari. «Questo governo ha lavorato male, in molto hanno fatto solo i loro interessi, e queste cose la gente le sa. Ci vuole un cambiamento». Mentre lo dice un sorriso le illumina il volto.
Seif al-Islam Gheddafi, il figlio del Colonnello? «Seif. Lui è pulito e parla ai giovani».
Abdelmajid Eldoursi, capo dell’Ufficio che gestisce la comunicazione e la stampa estera in Libia, cerca di spiegare a suo modo perché il paese sembra immune dalle proteste. Da navigato burocrate, Eldursi ha la risposta pronta: «da noi vige la democrazia diretta, chiunque abbia qualcosa di cui lamentarsi può farlo liberamente presente nei Comitati Popolari di base. Se si vuole cambiare un ministro o chiedere una nuova legge, basta andare nei comitati che poi comunicano le loro decisione al Congresso generale del Popolo. Da noi non serve andare per strada a protestare, basta discutere di ciò che si vuole». La prova del nove è vicina.