Andrea Carraro, Il Riformista 1/2/2011; Antonio D’Orrico, Sette 10/2/2011, 1 febbraio 2011
LA POLEMICA TRA D’ORRICO E CARRARO
(due articoli) -
ANDREA CARRARO PER IL RIFORMISTA -
Di Antonio D’Orrico non sappiamo molto, a parte il fatto che tiene una rubrica su "Sette" dove elargisce patenti di grandezza (tipo «Faletti è il più grande scrittore italiano») e definitive, anche brevissime, stroncature. Non vogliamo esprimere giudizi sul valore del suo canone, sulla qualità del suo gusto, evitiamo di porci la domanda se egli sia un critico o piuttosto un giornalista travestito da critico, perché non lo abbiamo letto abbastanza. Ci limitiamo a considerare che l’esercizio di questo ruolo gli ha dato molta notorietà e una rendita di posizione, per così dire, che dura da diversi anni.
Nonostante alcuni limiti strutturali di tale attività. Per esempio: come si fa a decretare quasi ogni anno l’esistenza del più grande scrittore italiano vivente? Non sono cumulabili? Alcuni dei fortunati smettono di essere viventi? Oppure si confida sulla volatilità del pubblico che si beve ogni anno, ogni stagione, il presunto caso letterario del momento?
Ci interessa invece il romanzo che proprio in questi giorni D’Orrico manda in libreria sotto le insegne della Mondadori: "Come vendere un milione di copie e vivere felici" (pp.303 19 euro). Trattasi di un esordio tardivo (D’Orrico ha 56 anni) che il giornalista-critico del Corriere della Sera, ma operativo sul settimanale allegato, ha sentito l’urgenza di fare, chissà perché.
Il risvolto dice con qualche oscurità che «Antonio d’Orrico ha scritto un romanzo che è un intervento di chirurgia estetica nel senso medico, cosmetico ma anche filosofico della parola». A noi sembra più semplicemente un romanzo pleonastico, che cerca di far ridere senza riuscirci, di creare suspense saltabeccando tra un argomento e l’altro senza un vero disegno, un’idea della realtà e della letteratura.
Più che un romanzo sembra un compito di una scuola di scrittura creativa svolto a più mani e in tempi diversi. E non usiamo questa suggestione a caso: perché è proprio nella Scuola Superiore di Scrittura "C. Pavese" che Federico Sicoli, il protagonista, ammannisce agli studenti del corso consigli per diventare (sic) «scrittori da un milione di copie». La lingua di D’Orrico manca di precisione: gli aggettivi sono spesso a gruppi di tre (sinonimi, dunque il secondo e il terzo tautologici) come in questa frase: «Era come prendere una scossa elettrica che lo lasciava spossato, esausto, sfinito».
Il quotidiano di riferimento - dove lavora un personaggio del romanzo - è naturalmente «il più autorevole e diffuso del paese» (ripetuto nel libro una quantità di volte sempre nel medesimo modo, difficile dire se con intenti comici o didattici). I superlativi abbondano insieme alle approssimazioni (si parla di via Nomentano invece che via Nomentana), si propongono chicche avverbiali tipo «precipitevolissimevolmente» o si sfodera l’irresistibile motto fumettistico: «A un altro sarebbero cadute le palle (ping!pong!)...». Certi personaggi, siccome svaligiano bancomat, D’Orrico li chiama "Gli Sbancomat" e la finiamo qui perché davvero ci pare inutile infierire.
Resta la domanda di fondo, che rivolgiamo all’autore, ma pure ai funzionari editoriali che hanno avuto per le mani il testo e l’hanno portato avanti: perché pubblicare un libro così poco necessario? Dal nostro canto, l’abbiamo recensito per rispondere a un’esigenza di "ecologia letteraria" (sempre dal risvolto) che non può non diventare in certi casi anche etica.
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ANTONIO D’ORRICO PER SETTE -
Debito d’onore. L’ambiente letterario italiano (di cui spesso si dice tutto il male possibile) non finisce mai di stupirmi. Ma in senso positivo. Prendete Andrea Carraro. Vi chiederete: chi è? È l’autore di una feroce stroncatura al mio romanzo "Come vendere un milione di copie e vivere felici" apparsa sulla prima pagina di un quotidiano. Carraro dice di non sapere molto di me e di non avermi letto abbastanza (e questo, forse, non c’era bisogno di specificarlo perché si arguisce da come scrive). Sostiene, poi, di avermi stroncato per un’esigenza "anche etica".
Tutto mi sarei aspettato nella vita meno che questo articolo di Carraro. Perché? Perché Carraro l’ho sempre un po’ snobbato, non l’ho mai preso in considerazione. Ma lui (pur non leggendomi "abbastanza") mi scriveva sempre, con garbo e gentilezza. Il 28 novembre 2002, per esempio: "Caro D’Orrico, sono Andrea Carraro, l’autore de ‘Il branco’. Ho appena pubblicato un nuovo romanzo, ‘Non c’è più tempo’ (Rizzoli). Sarei molto contento se lei lo leggesse. Lo ha ricevuto, vero?". E il 6 luglio 2007: "Vorrei esortarla a leggere il mio ultimo romanzo ‘Il sorcio’ che è stato ben recensito sul ‘Corriere’. Se non lo avesse ricevuto, se lo può fare mandare dall’ufficio stampa. Grazie dell’attenzione, Andrea Carraro".
Io niente. Nemmeno una riga. Mettetevi nei panni dell’autore del "Branco", di "Non c’è più tempo", del "Sorcio": non avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per covare nei miei confronti livore e risentimento, per sognare una vendetta (magari servita fredda)? Un tipico letterato italiano avrebbe fatto così. L’autore del "Sorcio" ha voluto distinguersi e ha dato a tutti noi una lezione di stile, di nobiltà d’animo, di etica (come rivendica lui stesso) e mi ha stroncato sulla prima pagina di un quotidiano (non dei più venduti, è vero, ma non si può avere tutto). In un’Italia sempre più dilaniata dall’odio, dalle gelosie e dai rancori più meschini, l’autore del "Sorcio" ci esorta a comportamenti più etici. Riuscirò mai a sdebitarmi "abbastanza" dell’onore che mi ha fatto?