Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 16/2/2011, 16 febbraio 2011
BELLE E BUONE MANIERE
«Le buone maniere»: bastano queste tre parole per evocare fragili nonne e artificiosi salamelecchi. Sì, la buona educazione, ricorda Lucinda Holdforth nel saggio Le buone vecchie maniere (traduzione di Elisabetta Stefanini, Orme, Roma, pagg. 188, € 16,00), sembra irrimediabilmente antiquata. Il nemico più insidioso e letale delle buone maniere è stato il ’68, con il suo culto rousseauiano di un’ipotetica naturalezza. Gli eccessi di allora, dalla semplice maleducazione alla sporcizia fino alla violenza, sono passati ma è rimasta l’idea che la persona "autentica", al contrario di quella "falsa", non debba nascondere i suoi reali, spesso meschini sentimenti.
La cortesia è un piacere che ci si concede, sottraendosi alla fretta artificiosa che ci sospinge gli uni addosso agli altri. Inoltre, come diceva Emerson, «le buone maniere richiedono tempo, e nulla è più volgare della fretta». La velocità con cui ci si precipita su un buffet, per riemergerne con un piatto strabordante di cibo, è direttamente proporzionale alla freschezza dell’ascesa sociale. Per Baudelaire la gentilezza è il migliore modo per tenere a distanza gli altri. Fitzgerald infatti osservava che le persone eleganti erano gentilissime con gli estranei e volutamente brusche con gli intimi. Non a caso Proust descrive l’ineffabile gentilezza del duca de Guermantes che tratta i conoscenti con un garbo quasi servile.
Anche la timidezza può diventare una scusa per essere maleducati. In ogni caso è il sintomo di un’eccessiva e quindi poco cortese concentrazione su di sé. Dopo una certa età, ammonivano Fruttero e Lucentini, non ha più senso asserire: «Sono timido», che dire: «Sono svizzero». Lo stesso vale per la goffaggine. L’ospitale Gertrude Stein aveva dovuto rinunciare a ricevere Ezra Pound: «Non voglio più vedere Ez. Basta che entri e si sieda qui per mezzora che, quando se ne va, tutto è rotto: la sedia, la lampada... Ez mi sta bene, ma non posso concedermi il lusso di averlo in casa, tutto qui».
È difficile stabilire il confine tra la gentilezza e la passività. In automobile la cameriera degli Huxley occupava perentoriamente il posto più comodo, vicino al guidatore, e nessuna la fermò mai. Indifferenza? Bontà? In ogni caso meglio eccedere in cortesia che nel suo contrario. Accorgendosi che un servitore stava rubando di nascosto un biscotto, il re Sole, racconta Saint-Simon, si era precipitato su di lui colpendolo. Più elegante allora, in caso di cattivo carattere, Somerset Maugham che, scorgendo un amico rubargli un allora prezioso avocado, non glielo aveva perdonato, ma non glielo aveva mai rinfacciato.
L’avarizia è un nemico delle buone maniere. Il duca di Westminster, si stupiva Coco Chanel, usciva sovente senza cappello per evitare di dovere lasciare una mancia ai guardarobieri. La mancia non deve mai mettere in imbarazzo chi la riceve per la sua esiguità o per la sua eccessività. Certo esistono anche gli eccessi, come Proust che una sera era arrivato a chiedere al portiere gallonato del Ritz una banconota in prestito per poi lasciargliela di mancia.
Anche se la precedenza non è più un motivo di duello, c’è ancora chi ignaro di sesso, età e opportunità, si precipita verso l’uscita cercando con ogni mezzo di sorpassare gli altri. Tutti sappiamo che la magnifica villa dei Tatti dell’esteta Harold Acton è diventata una fondazione per gli studi sul rinascimento, ma ben pochi ricordano che nessuno poteva vantarsi di essere mai uscito prima di lui da una stanza. Un giorno Casanova aveva dato la precedenza a un amico che voleva soddisfare i suoi bisogni. Un momento dopo, l’altro era stato schiacciato dalla caduta di un caminetto. Al che Casanova aveva concluso: «Bisogna lasciar passare la gente, e soprattutto essere educati».