A. N., Il Sole 24 Ore 16/2/2011, 16 febbraio 2011
GLI AFFARI DEL RAIS NELLA «CITTÀ DEI MORTI»
«Qui sono più i vivi che i morti», dice con ironica rassegnazione Hisham che con altre 800mila persone abita nel cimitero musulmano più grande del Medio Oriente. Questa è la "città dei morti" e di fronte, sotto lo sperone di roccia del Moqattam, ci sono 60mila cristiani copti, gli zabalin, i raccoglitori di rifiuti, che vivono tra montagne di immondizia. Sulla discarica hanno costruito la cattedrale di San Simone, la chiesa più alta del paese.
Nel nuovo Egitto, come in quello vecchio, convivono la rabbia della rivolta e la disperazione, il fatalismo arabo e la fede granitica dei credenti, con un aspetto sorprendente: le multinazionali fanno affari pure qui, tra defunti e spazzatura.
La città dei morti, al Qarafa, è lunga 12 chilometri e si stende da nord a sud del Cairo fino all’altura del Moqattam. Il viaggiatore la sfiora quasi senza notarla attratto dalla grandiosità magnetica delle moschea di Al Azhar e dal labirinto del bazar di Khan el Khalili. Al Qarafa non ha cinta muraria e si incunea nella città, occultata dagli edifici moderni, per riapparire con una distesa immensa di cupole e monumenti funerari secolari sotto la tangenziale a otto corsie. Ci sono tombe fatimidi, mamelucche, ottomane, dedicate a santi, mistici sufi, poeti, condottieri, sultani, che ora condividono fama e gloria con umili operai, braccianti e immigrati del Delta.
Con il vento da ovest che sollevava turbini di sabbia, in un’emulsione morbida di ocra e pulviscolo lattiginoso, ieri la città dei morti appariva ancora più affascinante ed enigmatica. «Vivo ad al Qarafa da più di 15 anni - racconta Hisham, muratore, padre di tre figli, nati tutti qui nel cimitero - Gli affitti in città sono troppo alti, non me li posso permettere ma stare qui non è così brutto come può sembrare». Per la verità il cimitero era già abitato secoli fa quando per tradizione le tombe comprendevano stanze per consentire le visite ai defunti dei parenti lontani. In questi rifugi di fortuna per i pellegrini oggi vivono decine di migliaia di poveri.
C’è chi si è installato nelle tombe di famiglia, altri hanno occupato abusivamente i mausolei abbandonati ma possono esibire il "domicilio funebre", una sorta di certificato di residenza, ottenuto con un bando pubblico gestito dai becchini che assegnano gli edifici mortuari. Con l’esplosione demografica e la crisi degli alloggi iniziata negli anni Settanta, la necropoli è diventata una città dentro la metropoli. Il governatorato del Cairo ha fatto arrivare l’acqua, l’elettricità, la scuola, le fognature. «Ci sono anche il commissariato di polizia e l’ufficio postale», fa notare Hisham con un certo orgoglio di quartiere.
Alzo lo sguardo verso Moqattam, questa è Bab el Nasr, la porta delle montagna, dove due ladri si infilano nella necropoli per rubare la dentiera di un fornaio appena sepolto: accade nel "Vicolo del Mortaio" di Neghib Mahfuz. Passeggiando nel cimitero non riesco però a sentire gli inebrianti odori di cannella, ambra e gelsomino descritti da Mafhouz che pubblicò il suo libro nel ’47. Piuttosto anche qui aleggia il sentore incombente della speculazione: era nei piani della famiglia Mubarak e dei suoi amici radere al suolo le ingombranti tombe dei mamelucchi, evacuare la popolazione e costruire dei fiammanti residence.
Se i musulmani poveri vivono nelle tombe, i cristiani copti di Moqattam, sull’altra sponda della tangenziale, campano di spazzatura, in una comune con venature tardo-hippy e contratti con le multinazionali del riciclaggio. La città degli Zabalin, quasi tutti di Assiut, è immersa fino alle orecchie nell’immondizia, accumulata in sacchi, selezionata a mano, tagliata dalle macchine e infine rivenduta a quattro multinazionali, tra cui due italiane (Gesenu e Iacorossi), che la riesportano in mercati come la Cina dove si usa per fabbricare allegre t-shirt e comode scarpe.
Zabalin è un medioevo contemporaneo: l’odore permea strade, negozi, frutta e verdura, con legioni di uomini, donne e bambini spazzatura che con muli, asini, furgoni e camion trasportano migliaia di tonnellate di immondizia che arriva dal ventre del Cairo. Prima che nel 2009 le autorità ammazzassero tutti i maiali per un’influenza suina - mai accertata - entrare qui era impossibile: l’umido veniva dato in pasto agli animali e le feci invadevano tutta la città.
«Mubarak era un dittatore corrotto, altro che protettore dei cristiani», dice padre Saman Farhat, ancora infuriato per la storia dei maiali. Guida spirituale e fondatore della comunità nel 1979, è un predicatore con la barba bianca che mi riceve in una catacomba con aria condizionata e tv mentre intrattiene due deputati musulmani del partito laico Wafd. Distribuisce benedizioni, consigli e tollera anche le bizzarrie dei suoi fedeli. «Questa - dice Adham Rafat indicandomi un’incompiuta costruzione di cemento - è la nostra sala per matrimoni: l’abbiamo costruita sulla montagna per non avere noie quando fumiamo hashish e marijuana». Le autorità, fa capire Adham, non sono molto tolleranti con i cristiani, e non solo per il fumo.