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 2011  febbraio 15 Martedì calendario

ERIKA, DIECI ANNI DOPO "ORA VOGLIO UN FIGLIO"

Sono passati dieci anni. Ancora uno, e lei sarà libera. Libera? Dieci anni, ma è come se fossero dieci minuti. La villetta è rimasta com’era, il padre ha ritinteggiato le stanze con gli identici colori pastello, dopo avere lavato il sangue da solo. Non è mai andato via da lì.
Sulle due tombe ci sono fiori freschi, la mamma accanto al bambino, è così che si dovrebbe stare sempre. Vicini, però vivi.

Anche i muri del corridoio nel carcere di Verziano, sobborgo di Brescia, sono chiari. Erika li percorre con passo leggero. Adesso ha quasi 27 anni. Ne aveva sedici quando scannò sua madre Susanna e il suo fratellino Gianluca, 97 coltellate in tutto, insieme al fidanzato Omar. Erika e Omar, il male assoluto. Era il 21 febbraio 2001: dieci anni senza un perché. Omar è già fuori. In galera è diventato giardiniere. Quand’è uscito, ha detto: "Erika mi è indifferente, non esiste più", poi ha chiesto di vedere il mare.

Chi l’ha incontrata, è rimasto colpito dalle mani. Esili, delicate. Quasi bianche. Difficile pensare a quelle, le stesse, che tentarono prima di avvelenare, poi di affogare un bambino nella vasca da bagno. Quando le dita stringono forte qualcosa, per esempio il manico di un coltello, diventano più chiare nello sforzo.

Chi l’ha incontrata, in questi giorni, si è sentito ripetere: "Voglio una vita normale, devo ricostruire, devo recuperare il tempo. E quando sarò fuori, voglio una famiglia e dei figli". Due anni fa si è laureata in filosofia, 110 e lode, discutendo una tesi dal titolo "Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici". La ricerca della verità, un argomento interessante. Il padre, l’ingegner Francesco De Nardo, c’era come sempre, come dal primo giorno dopo la mattanza. Aveva un mazzo di rose per lei. E c’era la zia, c’era la nonna Giuliana, la mamma di Susy: "Erika è cambiata, è più tranquilla. È migliore. Una bellissima ragazza, e mio genero è un uomo eccezionale".

Eccezionale anche nel silenzio, mai una crepa, mai una mezza parola in tivù o sui giornali. Un esempio, un modello, l’ingegnere che lavora nella fabbrica di cioccolato. Le uniche sue parole su Erika le leggiamo nello stralcio dei verbali. "Devo proteggerla, al limite anche da se stessa. Una ragazza della sua età deve per forza avere un futuro. Ma quando la guardo, a volte penso: dove ho sbagliato?"

Dicono che Erika sia oggi una donna pacificata, per quanto possibile. Lavora in prigione alla cooperativa interna, specializzata in imballaggi. Nel 2006 il giudice le ha rifiutato la libertà condizionale "perché non appare ravveduta". Cinque anni fa, quando uscì per la prima e unica volta di cella, la portarono a un torneo di pallavolo nell’oratorio di Buffalora, nel bresciano. I fotografi se ne accorsero. Molto si discusse su quelle immagini, sul diritto a un sorriso, ai lunghi capelli sciolti, agli occhiali da sole, alla felpa rossa. Ma da allora, sempre e solo quel corridoio avanti e indietro.

Omar l’ha rimosso subito. Dopo un anno già mandava lettere con cuori trafitti da spade a Manuel, giovane rapinatore straniero visto alla messa nel carcere Beccaria. Gli parlava d’amore, gli chiedeva se tifasse Ferrari o Mc Laren ("Io, Mc Laren!"), lo implorava di aspettarla. "Mi piacciono i ragni, i serpenti e gli scarafaggi, adesso non mi fanno più paura". Poi s’innamorò di Mario, il dj veronese che non aveva mai visto e che le aveva scritto una lunga lettera. Divenne, costui, "il fidanzato ufficiale" con inevitabili comparsate in televisione e davanti ai taccuini. Finché non finì con l’auto in un canale e morì, affogato. È la maledizione di Erika, si disse.

Nei primi anni al riformatorio Beccaria, lei non legava con nessuno. "Curatemi, ho male dentro, ho paura". Temeva aggressioni delle altre detenute. Tutti i mercoledì, il padre la andava a trovare. Poi si assestò, prese il diploma da geometra. A un amico, Marco, scrisse parole in realtà per la madre e il fratellino: "Perdonatemi, la mia vita è finita, però provo emozioni e non sono pazza. Perdonami, angioletto mio, ti voglio bene, quella sera dovevo bere io il veleno nel succo di frutta che maledettamente avevo preparato per te". Gianluca, 11 anni, nell’ultimo tema in classe alle medie aveva scritto: "Il mio migliore amico è mia sorella".

Dieci anni, e neppure un minuto senza il sangue attorno. "Sono invecchiata, quell’orrore ha cambiato la mia vita", spiega Livia Locci, il magistrato che fece condannare Erika e Omar. Quell’orrore: il maresciallo dei carabinieri che per primo entrò nella villetta, dopo non la smetteva più di vomitare. E dire che ne aveva viste. "È pura macelleria", ripeteva il medico legale.

L’hanno curata, ascoltata, seguita, accompagnata. Hanno cercato di intervenire su un disturbo della personalità, così si legge negli atti, e aiutata "a elaborare i vissuti". Ma nelle parole dei giudici c’è anche scritto: "Due omicidi che per efferatezza, per il contesto, per la personalità degli autori e per l’apparente assenza di un comprensibile movente, si pongono come uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria del nostro Paese".

Non erano stati gli albanesi, ma due ragazzini innamorati. Li scoprirono grazie ai microfoni nascosti in questura, filmarono Erika che mimava le coltellate, "li ho colpiti così". Omar le diceva "vieni qui, assassina", poi l’abbracciava. Dieci anni, ed è come se fossero niente. Nella campagna di Novi c’è la stessa luce opaca. Oltre le sbarre di Erika, una lunga fila di pioppi. Chi cerca un senso, trova solo silenzio.