Massimo Parrini, varie, 16 febbraio 2011
PANE, PER VOCE ARANCIO
«La fortuna dei panificatori è che il pane non è ancora prodotto dai cinesi, altrimenti costerebbe un euro e farebbe chiudere tutte le panetterie-gioiellerie. Nemmeno la tanto osannata qualità potrebbe salvarle, perché chi deve fare i conti con lo stipendio a fine mese non può permettersi di scegliere la qualità»: invettive come questa sono sempre più numerose sui blog sparsi sulla rete da associazioni di consumatori e semplici cittadini.
Cinquant’anni fa un chilo di pane costava quanto un chilo di farina e il guadagno dei fornai veniva dall’acqua aggiunta per fare l’impasto. Negli anni Ottanta, con l’inflazione a livelli record, il pane era venduto ad un prezzo calmierato. Nel ’92 ci fu la liberalizzazione. La situazione è precipitata con l’aumento del prezzo del grano che, rimasto fermo fino a maggio 2007, tra gennaio e marzo 2008 è salito da 130 a 290 euro a tonnellata. Un problema enorme per l’Italia, il più grande importatore di grano tenero al mondo: produzione sotto l’1% del raccolto planetario, il nostro Paese ne consuma oltre il 2%, col risultato che deve acquistare all’estero il 60% del fabbisogno.
Sebbene da più parti venga invocata per il pane una “filiera corta”, questo è possibile per focacce e ciabatte ma non per il pane “di qualità” (pane toscano”) richiesto da molti consumatori: per quello, spiegano i panettieri, servono farine canadesi (ma anche della Nuova Zelanda o turche). Secondo la Coldiretti questo «è vero solo in parte, perché le nostre farine potrebbero benissimo essere usate come base delle miscele che escono dai mulini con destinazione pane; poi, solo in aggiunta, si possono prevedere quote di farine prodotte col grano del Nord del mondo».
Molti coltivatori sostengono che produrre grano, duro o tenero che sia, a 14-15 euro al quintale è antieconomico, e che a quelle quotazioni diventa più conveniente non seminare. Al momento il problema non si pone: il prezzo viaggia verso i 30 euro al quintale, con un aumento oltre il 30% nell’ultimo anno (ma ancora sotto al picco raggiunto nel 2008). L’impennata dipende dal fatto che gli ultimi raccolti sono stati condizionati dagli incendi e dalla siccità in Russia e Ucraina e da condizioni sfavorevoli nel nord della Germania. L’unico Paese ad aver avuto un buon raccolto è stata la Francia. I recenti guai dell’Australia, quarto esportatore mondiale di grano tenero (incendi, uragano Yasi) spingono a prevedere che da qui a giugno le cose non potranno che peggiorare.
L’aumento del prezzo del grano dipende anche dalla speculazione che, controllando l’offerta, lo fa oscillare secondo esigenze ignote a chi lavora il prodotto finito: da quando i derivati sui cereali sono entrati nel mirino dei fondi di investimento come prodotto speculativo alla stregua di succo d’arancia e cacao (vedi il film Una poltrona per due), sempre più frequentemente assistiamo a sbalzi dei prezzi basati su previsioni lontane nel tempo e spesso sbagliate. Non bastasse, pane e pasta subiscono lo stesso fenomeno già sperimentato dalle famiglie con la benzina, il cui prezzo aumenta parallelamente a quello del petrolio seguendolo molto più lentamente nel percorso inverso.
Poiché la quotazione del grano è stabilita per tutto il mondo dalla Borsa merci di Chicago, anche il trasporto finisce con l’influire sensibilmente sul costo delle farine. Le notevoli differenze del prezzo del pane tra città e città (raddoppia tra Napoli, dove costa in media 1,95 euro al chilo, e Venezia, dove si spendono 3,87 euro al chilo, con medie che variano tra i 3,35 euro al chilo di Bologna, i 2,65 euro al chilo di Palermo, i 2,48 di Torino, i 2,31 di Roma, i 2,41 di Bari) mostrano che il costo fisso del grano ha alla fine un ruolo inferiore al costo del lavoro o alle cifre pagate per affittare i negozi.
Secondo il servizio Sms Consumatori, il prezzo al chilo del pane è almeno dieci volte più grande di quanto pagato per il grano. Gli oltre 26 mila panettieri italiani (11.500 al Nord, 4.175 nel Centro, più di 6.000 al Sud, quasi 5.000 nelle isole) sostengono che sul prezzo incidono per il 45 per cento il costo del lavoro, per il 25 per cento le materie prime, per oltre il 10 per cento i costi di ammortamento, per il 5 per cento le spese energetiche e per oltre il 10 per cento gli oneri fiscali (ma alcuni panettieri sostengono che lavorando “in nero” potrebbero tagliare i prezzi del 40%). Entrando nel dettaglio delle materie prime, il costo della farina sarebbe pari al 15-18% del prezzo finale.
L’italiano medio consuma 140 grammi di pane al giorno. Secondo i panettieri ciò significa che, complessivamente, il pane incide sul bilancio delle famiglie «per lo zero virgola zero qualche cosa». Secondo Carocibo (un indicatore dell’andamento dei valori assoluti e delle variazioni della spesa alimentare a livello nazionale e di capoluoghi di regione) nello scorso mese di ottobre il costo della dieta settimanale per l’alimentazione di un uomo adulto era pari a 44,58 euro e l’incidenza di pane e pasta su questa spesa si attestava rispettivamente a 4,13% e 2,91%. «Se il pane costa 1 euro si compra, e se invece e 1,30 no? Tanta gente invece cambia il cellulare più spesso, o usa l’olio migliore per le auto. E piuttosto risparmia sul pane o sull’olio che poi arriva sulle tavole da pranzo tutti i giorni», attaccano i panettieri.
Aumenti tra il 5 e il 10%, nel 2010 il consumo di pane ha registrato in Italia un calo del 4% (nei primi tre mesi del 2008, “prima crisi del grano”, il calo fu addirittura del 5,5%). I panettieri sostengono che produrre pane cosiddetto “fresco” con materia prima congelata, come fanno le industrie, può costare meno, ma alzarsi la notte per dare al consumatore un prodotto realmente fresco richiede per forza dei costi aggiuntivi.
Sul costo pesa anche “il rischio invenduto”: una soluzione a questo problema consiste nel venderlo a prezzo più basso verso sera, ma secondo i panettieri l’idea, oltretutto scorretta nei confronti di chi compra il pane al mattino, si è rivelata un fallimento perché le persone la sentivano quasi come un’umiliazione. Risultato: le vendite serali sarebbero scemate. Secondo i panettieri sarebbe possibile produrre un pane a prezzo calmierato (al Nord, ad esempio, tra i 2,00 euro e i 2,30 euro al chilo) «ma solo su ordinazione».
In alcune parti d’Italia, in testa la Campania, il caropane ha scatenato il fenomeno dell’abusivismo. A inizio febbraio gli aderenti all’Unipan regionale hanno sfilato per le vie di Napoli. Slogan: «Non mangiate pane cotto al veleno». Ce l’avevano con i 1.400 concorrenti «impuniti che spesso usano nei forni legna velenosa, in quanto ricavata da legname verniciato – tipo persiane – o addirittura da casse da morto» (se non, come sostiene qualcuno, rifiuti) e con le autorità, locali e nazionali, che non fanno abbastanza per stroncare questo fenomeno, ad esempio garantendo la tracciabilità del prodotto (contro cui si battono, tra l’altro, i nemici del pane “incellophanato”).
Chi non fa parte dei 930mila italiani che non mangiano mai il pane, può risparmiare evitando quello di pezzatura piccola, la cui costosa produzione fa aumentare il prezzo. Un’alternativa è farsi il pane in casa. Il 30% dei partecipanti alle 1500 fattorie didattiche di Coldiretti segue corsi di questo tipo (leggi qui l’articolo di VoceArancio su come farsi il pane in casa).
I macchinari per fare il pane in commercio (Bifinett, Bomann, Kenwood, Moulinex, Panasonic, Severin ecc.) costano dai 60 ai 200 euro, su internet se ne trovano di scontati fino a meno di 30 euro (ma è evidente che oltre una certa soglia la qualità è quella che è). In generale le macchine fanno tutto da sole, richiedendo solo l’inserimento degli ingredienti, e permettono di cuocere pane in cassetta in forme da 750 grammi o un chilo che durano fino a cinque giorni se avvolte in un panno.
Dotate di varie funzioni (doratura della crosta ecc.) queste macchine permettono la produzione di pane integrale, l’aggiunta di uvetta, semi, olive, la realizzazione di impasti per pizza, pasta, dolci. È utile comprare una macchina col timer, che permetta la cottura di notte (quando, tra l’altro, con la tariffa bioraria il prezzo dell’elettricità è minore), ma allora è consigliabile che sia dotata un sistema anti-blackout (altrimenti al risveglio si rischia di trovare la pasta sparsa sul tavolo tipo Blob). Chi deve fare solo un chilo di pane può risparmiare scartando i modelli con doppia lama impastatrice. In tempi di caro-grano, la farina tipo “0” costa 40-45 centesimi al kg (nei punti vendita della grande distribuzione se ne trovano fino a 5 tipi adatti alla panificazione), sommando 10 centesimi per l’elettricità fanno più o meno 200 euro l’anno: una famiglia composta da quattro persone che ne consumi 6 etti al giorno andando dal fornaio può facilmente spendere più del doppio.