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 2011  febbraio 15 Martedì calendario

Su Cavour e Bismarck

Quando Bismarck era un piccolo Cavour - Si dice spesso che il Piemonte è stato nel Risorgimento la Prussia d’Italia: in una nazione divisa fra troppi staterelli era l’unica monarchia solida e bene armata, capace di realizzare l’unità sulla punta delle sue baionette. Si dimentica, però, che il Piemonte unificò l’Italia qualche anno prima che la Prussia unificasse la Germania, e quando le vittorie prussiane erano ancora impensabili. Negli anni successivi all’Unità d’Italia, era la Prussia a venir paragonata a un Piemonte di Germania, e nei caffè si discuteva se Bismarck avrebbe mai potuto essere un Cavour tedesco (ma si tendeva a pensare di no, perché la sua brutalità e il suo disprezzo per le regole parlamentari contrastavano penosamente con il liberalismo di Cavour, e con la sua maestria nell’arte anglosassone di governare incantando il parlamento). Fu un momento magico, in cui l’Italia era oggetto di ammirazione in Europa e nel mondo; e purtroppo durò pochissimo. Finì nel 1866, il vero annus horribilis della nostra storia, quando la doppia catastrofe di Custoza e di Lissa aprì gli occhi a tutti sulla fragilità del nuovo Stato, proprio mentre la vittoria dei nostri alleati prussiani sull’Austria rivelava la nascita di una nuova grande potenza, pronta a dare l’assalto al potere mondiale. Da quello shock, che distrusse la fiducia in se stessi faticosamente riconquistata dagli italiani, e trasformò in derisione la simpatia di cui godevamo, l’Italia non si è mai veramente ripresa. Ha ragione quindi Gian Enrico Rusconi a concludere con il 1866 il suo parallelo tra Cavour e Bismarck, sottotitolato Due leader fra liberalismo e cesarismo (Il Mulino, pp. 212, euro 15). Quasi sconosciuto fino alla guerra di Crimea, poi ammirato come uno dei grandi uomini d’Europa e pianto con sincera costernazione alla sua improvvisa scomparsa, Cavour continuò ancora per pochi anni dopo la morte a essere ricordato e celebrato anche fuori d’Italia come il grande maestro della Realpolitik, l’uomo che con la sua forza di volontà aveva cambiato il mondo; poi, inevitabilmente, l’elmo chiodato e i baffoni di Bismarck sostituirono nell’immaginario collettivo gli occhialini e la barbetta di Camillo. Oggi siamo così convinti, e non a torto, che l’Italia sia un paese arretrato e secondario rispetto alla Germania, che provoca stupefazione immergersi, con Rusconi, nel dibattito politico tedesco di metà Ottocento. Nel 1853 August von Rochau aveva inventato il concetto di Realpolitik - capacità, cioè, di far politica sfruttando con spregiudicatezza le condizioni del momento, perseguendo un fine preciso ma senza illusioni né paraocchi ideologici, prendendo decisioni destinate a produrre fatti concreti, calcolandone le conseguenze e assumendone il rischio. Si era prima ancora della guerra di Crimea; eppure, con preveggenza, Rochau aveva già additato nella politica del regno di Sardegna un esempio di Realpolitik carico di promesse per il futuro. Da allora, e per un quindicennio, Cavour domina l’orizzonte politico tedesco in un modo che oggi appare impensabile: ancora nel 1865 il grande storico Heinrich von Treitschke annuncia il progetto di scrivere una biografia di Cavour per «mostrare al nostro pubblico che cosa è una geniale Realpolitik». Per un popolo diviso, era ovvio allora che l’obiettivo più urgente e vitale fosse l’unificazione. «Noi tedeschi abbiamo sperimentato con amaro dolore quanta infelicità, umiliazione e vergogna nasce dalla mancanza di unità politica», scriveva nel 1858 un politico tedesco, augurando agli italiani, non senza invidia, ogni successo nella loro impresa. Nei due anni successivi l’impresa riuscì al di là di ogni speranza, e i liberali tedeschi additarono l’Italia coraggiosa e calcolatrice, pragmatica ed efficace di Cavour come un modello, pur dubitando che la Germania potesse mai arrivare alla sua altezza. «L’Italia non era corrosa da ostinato dottrinarismo» e per questo aveva vinto, scrivevano, senza immaginare che un secolo e mezzo dopo queste parole ci avrebbero lasciati stupefatti; e sospiravano: «l’unica grande splendida vittoria del liberalismo che il nostro secolo conosce è stata raggiunta in Italia». Ancora nel fatale 1866, un eminente liberale tedesco confessava: «Come ho invidiato per anni gli italiani, per il fatto che a loro fosse riuscito quello che a noi il destino sembrava aver rimandato a un lontano futuro; come ho desiderato un Cavour tedesco e un Garibaldi come messia politico della Germania»; e si dichiarava incredulo davanti alla scoperta che dopo tutto un Bismarck non era inferiore a un Cavour. Ma, appunto, nuovi fatti si erano verificati, e i fatti hanno l’abitudine di cambiare anche la percezione del passato. Quando uscì il Cavour di Treitschke, nel 1869, lo studioso ormai scriveva: «I difetti dell’unità d’Italia raggiunta prematuramente e con l’aiuto straniero appaiono agli occhi di tutti». Non molto tempo prima Rochau annotava che in Italia le masse erano rimaste passive nel processo di unificazione, e che nella Penisola «già si vede in atto il particolarismo che distrugge l’unità appena conquistata». Qui, come si vede, siamo su un terreno ben più familiare per noi italiani del 2011. Il miracolo del Risorgimento era durato lo spazio di un istante.