Oscar Giannino, Il Messaggero 15/2/2011, 15 febbraio 2011
SE LA MICCIA NON SI SPEGNE
Che cosa significa, per l’economia italiana, l’interscambio con l’Iran entrato in una nuova fase di instabilità? Innanzitutto energia e petrolio, visto che la presenza dell’Eni in Iran data addirittura al 1957. Fin dall’inizio la presenza in Persia per la giovane compagnia italiana significava rendersi indipendente dal cartello delle allora “sette sorelle” angloamericane. È una presenza alla quale gli americani hanno continuato a guardare con preoccupazione e fastidio negli ultimi anni di sanzioni all’Iran. Ne abbiamo avuto conferma dai documenti rivelati da Wikileaks, settimane fa. Attualmente, dopo le sanzioni rafforzate dall’Onu lo scorso giugno per i programmi atomici di Ahmadinejad e quelle europee di luglio, dopo investimenti per circa 3 miliardi di dollari in Iran nell’ultimo decennio attualmente gli impegni dell’Eni si limitano al completamento di due contratti petroliferi assegnati nel 2000-2001 in base al meccanismo del buy-back.
Un meccanismo che comporta per un determinato periodo di tempo lo sfruttamento di un giacimento per poi essere riconsegnato con tutte le strutture alle autorità sovrane locali.
Dal 2007 è avviata dall’Eni l’attività a Darquain, un giacimento petrolifero sulla terraferma che è stato inaugurato nel luglio del 2005 e che dovrà essere consegnato a partner locali. C’è poi attivo un secondo contratto per l’ estrazione di gas naturale, nel sito di South Pars al largo del Golfo Persico. In questo caso l’Eni si limita al recupero degli investimenti: parte del gas estratto ripaga gli impianti che vengono lasciati dall’ Eni alla società di Stato iraniana. Da Darquain entrano in Italia 35mila barili di petrolio al giorno, sui 150mila totali dall’Iran di approvvigionamento giornaliero italiano, quota che vale oltre il 10% del nostro import petrolifero totale. Dei 115mila barili non Eni, gli importatori sono gruppi italiani come Saras e Api, che ne curano la raffinazione.
Ma Iran non significa per l’Italia solo energia importata, anzi. L’Italia è quinto Paese al mondo nella graduatoria dell’export iraniano, dopo Cina, Giappone, Turchia e Corea del Sud. Ma nel 2010 è salita anche al quinto posto nella lista dei Paesi da cui l’Iran importa di più. Siamo il secondo Paese europeo dopo la Germania.
Mentre nel 2009 l’export italiano in Iran aveva subito un tracollo, nel 2010 e soprattutto fino all’estate l’aumento era vertiginoso. Nelle macchine utensili e robotica la crescita era del 384%, nelle turbine a vapore del 236%, del 250% nelle macchine per la lavorazione del pane e mulini. Per l’intero settore meccanico si profilava un vero e proprio exploit, superiore ai 4 miliardi di valore. Ma, da settembre in avanti, è subentrato un problema serio di pagamenti. Vendute sempre più macchinari, dopo il giro di vite Onu e quello europeo da agosto si è fatta sentire la richiesta americana alle grandi banche internazionali di non garantire ed effettuare più i pagamenti di controparte iraniana. Per l’industria italiana è diventato sempre più difficile essere pagata, tanto che Tremonti d’accordo con Confindustria ha accentrato le procedure di garanzia presso il Comitato Sicurezza Finanziaria, al Tesoro. Attualmente è sottoposta a procedura di autorizzazione ogni transazione superiore ai 40mila euro, e nessuna grande banca neanche degli Emirati è più disposta alle anticipazioni.
Da questo punto di vista, un Iran a diversa conduzione politica potrebbe essere per l’economia italiana uno sbocco molto più ricco e interessante di quanto non sia stato nell’ultimo decennio “a rischio”. Abbiamo dimostrato di essere ottimi e apprezzati interlocutori delle imprese iraniane: senza sanzioni, non potremmo che crescere nell’interscambio.