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 2011  febbraio 15 Martedì calendario

IL «FOLLE» DELLA RIVIERA CHE IN TRIBUNALE BATTE SEMPRE I PM

«Era buio pesto. Ho notato qualcosa in terra, credevo fosse un sacco della spazzatura. Ho fatto un passo avanti e mi sono accorto che era un persona. Aveva le gambe piegate che si muovevano. Cercava di respirare, implorava con gli occhi. Aveva uno squarcio nella gola. E quella roba scura dietro di lei, non era vomito, era sangue» . Il titolare degli «Alabardieri» , un pub del centro storico, si interrompe. «Dio mio» . Respira pesante, cerca la forza per continuare. Lui neppure lo sapeva chi era Luciana Biggi, prima di sbatterci sopra i piedi alle tre di notte del 28 aprile 2006. Ma si emoziona, nel raccontare gli ultimi istanti di vita di un essere umano, buttato nell’immondizia come un utensile rotto. Luca Delfino invece si spolvera i pantaloni della tuta dalle briciole della focaccia che ha appena finito di mangiare. Sorride. Si porta il palmo alla bocca, nel gesto ostentato di sopprimere un rutto. Era l’udienza del 14 ottobre scorso, una delle ultime del processo che si è concluso ieri. Il giorno dopo i giornali locali titolarono sul suo cambio di aspetto. Si era tagliato la barba e capelli a zero, smettendo così di somigliare a un Charles Manson di riviera, del quale ha sempre riprodotto lo sguardo allucinato. In fondo quella era l’unica vera novità. Ci si abitua a ogni cosa, se ripetuta all’infinito. Persino all’atteggiamento sprezzante tenuto verso le vittime, anche se da oggi tocca scrivere che ce n’è una sola, conclamata. Per lo Stato, Delfino non ha ucciso la sua ex fidanzata Luciana Biggi. Negli ultimi due anni, da quando venne arrestato, sembra quasi che abbia dedicato ogni giornata all’edificazione della propria leggenda criminale. «Dov’è Antonella, che voglio darle il mio regalo di Natale?» urlava il 7 gennaio del 2009 nel tribunale di Sanremo, davanti alla madre della ragazza che piangeva e si tappava le orecchie per non sentire quel vaneggiare crudele. Un’altra volta, era il marzo 2008, gli venne concesso uno show vergognoso al tribunale di Ventimiglia. «Antonella Multari è stata sequestrata, la tengono segregata» . Alternando frasi sconnesse a pause teatrali, raccontò dettagli infamanti sulla vittima. Era il primo atto di un surreale processo alla memoria, perché il querelato aveva nel frattempo ucciso la querelante, che mesi prima di essere ammazzata lo aveva denunciato per molestie. Ma il verbo uccidere non rende l’idea. Antonella Multari è stata macellata, con 40 coltellate tirate in una strada del centro di Sanremo. Luca Delfino, padre operaio, madre casalinga, un fratello che va ancora a scuola, viveva di espedienti, dormendo spesso alla stazione Brignole. Sempre in bilico tra droga e alcool, una volta si fece beccare mentre rubava i tergicristalli di un’auto. Nel 1998 venne coinvolto in un episodio di molestie ai danni di una minorenne. Nel 2006 viene indagato a piede libero per l’omicidio di Luciana. L’anno seguente si fidanza con Antonella, commessa in un negozio di abbigliamento a Vallecrosia. Dura quattro mesi. Lei sporge denuncia per aggressione. Poi va ancora dai carabinieri a raccontare delle continue molestie, delle minacce ai suoi genitori. Non succede nulla. Il 12 agosto 2007 infila un coltellaccio sotto l’inseparabile tuta e pedina Antonella. Quando lei resta sola, si avvicina. Lo arrestano subito. La prova del delitto è sparsa sui suoi vestiti. Dopo, si saprà che poche ore prima aveva anche palpeggiato un’altra donna. Come può accadere che un uomo indagato per omicidio e molestie possa rimanere libero, fino a uccidere la sua ultima ossessione? La polizia genovese punta il dito contro Enrico Zucca, il magistrato titolare del fascicolo sulla morte di Luciana Biggi. «Era un soggetto pericoloso, ne avevamo chiesto l’arresto perché c’era il rischio che uccidesse ancora» . La procura replica sostenendo l’assenza di una prova schiacciante e «l’indeterminatezza» degli indizi. Il ministero della Giustizia archivia lo scontro a favore del pm: «Valutò con coscienza» . Nel 2008 il ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna incontra mamma e papà Multari prima di varare il disegno di legge che introduce il reato di stalking. Fosse arrivato prima, dice, forse la loro unica figlia sarebbe ancora in vita. «Signor giudice, mi scusi: prima di cominciare gradirei fare due chiacchiere con la mia Antonella» . La prima udienza del processo per il delitto di Sanremo comincia così, con il consueto spettacolo di Delfino che gioca a fare il pazzo. Funziona, comunque: 16 anni e otto mesi per un omicidio che più annunciato non si poteva. Ma l’ordinamento italiano è uno degli ultimi a contemplare ancora la seminfermità mentale, che comporta la riduzione secca di un terzo della pena. L’avvocato di Delfino ha poi avuto l’accortezza di chiedere e ottenere il rito abbreviato, e via un altro terzo degli anni da scontare. L’ultimo capitolo di questa storia è senza speranza, date le premesse iniziali sulla mancanza di prove certe. Questa volta l’avvocato di Delfino lascia che il processo per l’omicidio di Luciana Biggi venga celebrato in Corte d’Assise, perché sa di partire in vantaggio. I giudici decidono di non ricostruire in aula la storia di Antonella e di non ascoltare le persone che dovevano raccontare le molestie del 1998. La comparsa di un testimone che afferma di aver visto l’imputato che picchiava la Biggi poche ore prima del delitto non basta. Assolto. Delfino passa il suo tempo leggendo ogni articolo che parla di lui, cita le poesie del cinese Li Tien Min, è diventato un mistico che scrive poesie su Paolo VI, si affida al giudizio di Dio. Con quella degli uomini non gli è andata poi così male. Tenuto conto di permessi, buona condotta, varie ed eventuali, potrebbe uscire tra cinque anni. Fuori dal carcere troverà ad aspettarlo il padre di Antonella, che sopravvive per quel momento. Anche ieri ha giurato che si farà giustizia da solo. Comunque Delfino potrà invocare nei suoi confronti la legge sullo stalking. È arrivata fuori tempo massimo. Ma non per lui.
Marco Imarisio