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 2011  febbraio 13 Domenica calendario

PHILIP K. DICK

Per me, Philip K. Dick era venuto da Harry, il padre del mio migliore amico Jake. Harry era più giovane della madre di Jake, e quando divorziarono - come, a quanto pareva, facevano i genitori di chiunque - la madre di Jake mantenne la casa di famiglia e l´impeccabile atteggiamento genitoriale; anzi, era uno dei genitori più affidabili in circolazione, in quel periodo straordinario e incerto nel nostro inaffidabile angolino di mondo, se cercavi qualcuno che ti rimproverasse o ti incoraggiasse o ti preparasse un panino imbottito, come se fossi ancora un bambino. Per questo genere di cose contavamo su di lei. Harry, invece, diventò per Jake come un fratello maggiore geniale e sregolato, o un amico adulto un po´ pazzo. Ritornò a certi suoi entusiasmi adolescenziali, e si portò dietro anche il figlio.
Harry lo portava al Junior Restaurant, il leggendario tempio brooklynese della cheesecake, per cene composte quasi esclusivamente di cocktail di scampi e frappè al cioccolato. E vedendo la passione di Jake per i fumetti, Harry cominciò a passargli le copie dei suoi tascabili di fantascienza man mano che finiva di leggerli. Non si trattava dei vecchi "classici" degli anni Quaranta che avevo scoperto sugli scaffali di mia madre, Ray Bradbury e Isaac Asimov, ma di roba recente, alternativa, dalla veste grafica psichedelica: Roger Zelazny, Harlan Ellison e, fatalmente per me, Philip K. Dick. Il primo libro di Dick che mi capitò sotto gli occhi fu Un oscuro scrutare, del 1977; il secondo potrebbe essere stato Mr. Lars, sognatore d´armi, o Follia per sette clan.
Nella libreria di Jake ricordo anche di aver visto Non saremo noi, ma dev´essere stato qualche tempo dopo, perché uscì soltanto nel 1980. Non saremo noi è un´antologia di racconti di Dick a cura di un giovane editor di nome Mark Hurst, per la quale lo stesso Dick scrisse una famosa - almeno per me - prefazione dal tono autobiografico intitolata Il negozio di animali Lucky Dog. In quelle pagine Dick definisce la propria percezione di sé come artista: un outsider depravato che bussa impotente alle finestre della letteratura «seria», ridotto a sfornare storie pulp nutrendosi di carne di cavallo destinata ai cani - comprata appunto al negozio di animali che dà il titolo al pezzo - perché non può permettersi di comprare del cibo da cristiani.
A Jake piaceva di più Zelazny, le cui fantasie di superpotere e martirio si accordavano meglio con i fumetti Marvel degli anni Settanta che tutti e due veneravamo. E in effetti, anche se nell´aspetto dei libri di Dick c´era qualcosa che mi ispirava, non mi tuffai a leggerli, o almeno non subito. Cominciai a leggere davvero Dick solo un paio d´anni dopo - anche se mi sembrava che fosse passata una vita dai tempi in cui frequentavo quel santuario dei fumetti che era la stanza di Jake - quando in un negozio di libri usati mi procurai a mia volta delle copie di Ubik, Labirinto di morte e Le tre stimmate di Palmer Eldritch: tutti e tre nell´edizione tascabile nera della Bantam, meno bizzarra e dal fascino più sinistro rispetto ai libri che il padre di Jake aveva sottoposto alla nostra attenzione. Fu leggendo quei tre romanzi che feci mio Dick una volta per tutte, stringendoci una relazione nella quale avrei investito un immenso patrimonio personale nel corso degli anni, e perfino dei decenni, a seguire. Ma se voglio essere onesto con me stesso quanto alle origini della nostra storia, devo ammettere che sentivo aleggiare stranamente sullo sfondo il papà troppo svaccato di Jake.
L´ultimo anno delle superiori avevo una ragazza, Lorna. [...] Ho scritto di Lorna anche altrove. È la ragazza che pedinavo come un patetico stalker dalla stazione della metro a casa in un saggio intitolato Storie metropolitane. Gli adolescenti, si tende a pensare, dovrebbero spassarsela: invece io e Lorna avevamo una storia d´amore nevrotica, tempestosa e a intermittenza, piena di tradimenti subdoli e argomentazioni imploranti. Nell´estate del 1982, l´estate fra le superiori e l´università, l´anno in cui morì Philip K. Dick, io e Lorna ci lasciammo tre o quattro volte, ed eravamo nel bel mezzo di una lunghissima lite quel torrido pomeriggio di giugno in cui la portai con me a vedere Blade Runner, che era uscito un paio di giorni prima. Chiaramente ci facemmo a piedi Flatbush Avenue fino all´incrocio con la Settima, per guardare il film al Plaza.
Io ero in stato semiconfusionale, arrabbiato con lei, arrabbiato con me stesso per ragioni che non riuscivo né ad ammettere né a esprimere in maniera sensata. Le attese che avevo nei confronti del film erano un tormentoso miscuglio: avevo già sentito dire che non era fedele al libro, e che non andava a genio a quelli che, pur senza essere appassionati di Dick in particolare, speravano che i film di fantascienza arrivassero a dominare il panorama culturale. Nel panorama culturale, dopo Star Wars e Incontri ravvicinati del terzo tipo, questo film non avrebbe sicuramente trovato un posto comodo. Peggio ancora, probabilmente ero incazzato anche nel senso opposto: come uno di quei fan che si infastidiscono al vedere che la loro band underground preferita firma il contratto con una major, temevo che stessero strappando Dick alla mia sfera esclusiva.
Mentre pianificavo un pellegrinaggio in California per conoscere Dick di persona, ero venuto a sapere che era passato a miglior vita, nel febbraio di quell´anno. Per quanto fosse insensato, avevo preso la sua morte come un torto personale. E così, vittima di tutto questo e della nostra velenosa passione, litigai con Lorna fuori dal cinema, proprio lì su quell´incrocio per me tanto spinoso, sotto gli occhi di tutti i viali che zigzagavano fra il mio passato e il mio futuro. Feci una piccola scena madre, grondante di sudore, perché eravamo arrivati in ritardo, spiegando pomposamente quanto era importante per me la visione di quel film, e quanto odiavo fare tardi al cinema. Ovviamente, quando alla fine mi calmai, comprammo i biglietti ed entrammo in sala, apparve chiaro che i trailer dei film erano finiti solo un attimo prima. Con ogni probabilità, il nostro ritardo era esattamente pari alla durata della mia crisi isterica.
Guardai il film carico di un risentimento rivolto contro vari obiettivi. Da parte di Lorna, l´unica vera reazione fu quella di trovare la violenza spropositata e disturbante, e mentre uscivamo dal cinema in uno stato ancora più confusionale di quando ci eravamo entrati, non riuscii a difendere il film di fronte alla sua avversione, né ad associarmi al suo rifiuto come se fosse la risposta più adeguata. Seduto davanti allo schermo, non avevo fatto altro che passare in rassegna le mancanze della versione cinematografica rispetto al libro, e non ero riuscito quasi per niente a cogliere quanto c´era di straordinariamente vivido e originale in quello che stavo guardando. In particolare, trovai che la voce fuori campo da duro fosse imbarazzante e scopiazzata, veramente scrausa. E direi che, volendo perdonarmi qualcosa di quel giorno, posso pensarlo tuttora. Anche se adesso ho un´autentica venerazione per quel film, e l´ho visto in varie versioni qualcosa come una dozzina di volte, ancora non tollero chi sostiene che la voce fuori campo sia una buona idea.
Due mesi dopo ero all´università nel Vermont, in volontario esilio dai miei dilemmi irrisolti fra Flatbush e la Settima ed ero diventato uno dei primi membri della Philip K. Dick Society, l´associazione spontanea nata per accrescere la fama postuma dello scrittore e guidata dal critico musicale Paul Williams. Una delle prime lettere che mi vennero recapitate presso il campus fu il loro bollettino, e rimasi a guardare trasognato l´indirizzo del mittente, già progettando una qualche fuga o esilio ben più spettacolare, un balzo con cui sarei entrato nell´universo di Dick, e uscito dal mio. Dick poteva anche essere morto, ma nulla mi vietava di recarmi comunque in pellegrinaggio al negozio di animali Lucky Dog.
La prima volta che scrissi a Paul Williams per presentarmi, il pretesto fu che ero interessato a scrivere un adattamento cinematografico di Confessioni di un artista di merda. Non ricordo come mi fosse venuta questa ambizione, so solo che ero convinto che Confessioni, uno dei romanzi "mainstream" di Dick, fosse fra i suoi migliori: un libro veramente ben riuscito, nonostante rivestisse un ruolo marginale anche all´interno della sua carriera all´epoca marginale; e lo credo ancora. Pensavo anche che ne sarebbe potuto venir fuori uno splendido film, una surreale tragedia domestica ambientata in California negli anni Cinquanta, qualcosa che avrebbero potuto girare Altman o Hal Ashby - e lo credo ancora, malgrado ne sia già stato tratto un buon film francese che trasferisce la storia nella Francia contemporanea. A ripensarci, mi rendo conto che nell´urgenza di portare alla ribalta uno dei romanzi realistici di Dick trasformandolo in un film di successo - già immaginavo una serie di Oscar - si intravedeva il mio desiderio di riabilitare l´autore rispetto al gusto letterario tradizionale, piuttosto che lasciarlo languire nell´ambito culturale bizzarro e settario della fantascienza, dove l´avevo trovato. La voglia di propagandare la sua grandezza di scrittore in quanto tale, di farlo entrare a testa alta in un canone, è sempre stata inestricabile da quella di coniugare i miei strampalati entusiasmi con le mie più alte aspirazioni artistiche, ma anche di esorcizzare la vergogna che avevo imparato a provare all´incrocio fra la Settima e Flatbush, e in ogni istante successivo in cui mi era stato ricordato - e capitava costantemente - che la fantascienza era un interesse "paraletterario".
Traduzione di Martina Testa
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