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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

PERCHE’ VINCE IL MODELLO VOLKSWAGEN

Volkswagen rappresenta un segno di contraddizione per l’Italia che, dividendosi, si interroga sul futuro della Fiat. Il balzo dell’utile netto da uno a 4 miliardi di euro e l’aumento salariale del 3,2%appena concordato con l’Ig Metall per i centomila dipendenti tedeschi, oltre all’una tantum di 500 euro, smentiscono la teoria che esista un modo universale di fare l’automobile, quello americano sposato — per amore o per forza — dalla Fiat di Sergio Marchionne. Salari, orari e diritti sindacali variano a seconda delle politiche d’investimento, delle capacità tecnologiche e organizzative e anche degli assetti societari. Allo stesso modo non esiste una finalità naturale dell’impresa identificabile nella «creazione di valore per gli azionisti», ma una pluralità di fini possibili, che coesistono in dialettica fra loro, figli della storia e della geografia degli interessi. Ma il caso Volkswagen porta una sfida anche al sindacato italiano, alla sua ala radicale in primis, che oggi la cita a modello senza mai fare i conti con il suo passato . La storia del Daf Pochi ricordano che la Società a responsabilità limitata per lo studio dell’automobile popolare (Volkswagen, appunto) venne fondata nel 1937, su impulso di Hitler, con un capitale di 50 milioni di marchi sottoscritto dal sindacato nazista, il Deutsche Arbeitsfront (Daf, il Fronte tedesco del lavoro). Negli anni seguenti, come racconta Berthold Huber, leader dell’Ig Metall, alla Frankfurter Allgemeine Zeitung , la società iniziò la produzione del Maggiolino e fu ricapitalizzata con altri 80 milioni di marchi dal sindacato di regime, forte di 20 milioni di iscritti, che utilizzò i proventi della vendita dei beni dei sindacati democratici requisiti nel 1933 dalle SA e dalle SS e poi confiscati e conferiti al Daf nel 1937 . Ricordare gli esordi aiuta. Nel 1945, l’amministrazione militare britannica rinunciò a trasferire lo stabilimento di Wolfsburg nel Regno Unito quale risarcimento dei danni di guerra. Agli industriali inglesi non interessava e questo facilitò il responsabile britannico, maggiore Ivan Hirst, ad assegnare all’azienda tedesca commesse per l’esercito d’occupazione nel quadro degli aiuti alla Germania, nuova alleata contro l’espansionismo sovietico. Il governo inglese, guidato dal laburista Clement Attlee, favorì dunque la rinascita di Volkswagen azienda statale a controllo paritetico tra capitale e lavoro. Finché, N e l 1949, la Dgb, la rinata Federazione dei sindacati liberi, s’impegnò a rinunciare alle sue pur legittime pretese sul maltolto, ovvero sulla proprietà di Volkswagen, in cambio del riconoscimento al consiglio di fabbrica del diritto di veto sulle decisioni strategiche proposte dal management. La radice lontana di quell’accordo risale alla fine dell’Ottocento quando alcuni industriali illuminati, come Ernst Abbe della Carl Zeiss di Jena, si fecero promotori della partecipazione dei dipendenti agli utili e della giornata di 8 ore avversata dai capitalisti manchesteriani. Ma Volkswagen si spingeva ben oltre le esperienze bismarkiane e sperimentava una condivisione del potere che, nel 1951, Ludwig Erhard codificò nella Mitbestimmung, il sistema della codecisione che, coinvolgendo i lavoratori nella logica della grande impresa, stabilizzò l’adesione della Germania all’economia di mercato. La legge del 1960 La Volkswagen moderna, tuttavia, si costituisce nel 1960 quando, con legge ad hoc, la Srl venne trasformata in società per azioni e il capitale diffuso al 60%tra piccoli azionisti restando il 40%concentrato equamente tra lo Stato, poi venditore, e il Land della Bassa Sassonia, che conserva un 20,1%, abbastanza per avere il diritto di veto sulle decisioni per le quali si richiede la maggioranza dell’80%. Vigente la legge Volkswagen, la casa di Wolfsburg è diventata il primo gruppo automobilistico europeo, ricco di altri marchi (Audi, Skoda, Seat, Bentley, Bugatti, Lamborghini) e forte anche nei camion (Scania). E quando l’Unione europea l’ha esposta al rischio di scalata abolendo le protezioni della legge del 1960 in nome della libera circolazione dei capitali, Volkswagen ha subìto e respinto il doppio assalto speculativo della Porsche e degli hedge fund. Adesso, entro l’anno, la Volkswagen completerà l’integrazione azionaria con Porsche, che porterà un marchio formidabile, una storia comune e due azionisti di rilievo, le famiglie Porsche e Piech, discendenti di quel Ferdinand Porsche che progettò Maggiolino, nonché un certo fardello dei debiti della scalata contro i quali sta, tuttavia, una liquidità netta di 18,5 miliardi di euro . Certo, gli analisti finanziari considerano un punto di debolezza la governance di Volkswagen, aperta al Land e al sindacato, pur senza esserne schiava. Non piace nemmeno alla Borsa di Francoforte, figuriamoci a Wall Street, che l’avvio, la chiusura o il trasferimento di filiali e stabilimenti, l’acquisto o la vendita delle partecipazioni, i piani pluriennali d’investimento, alcune misure di carattere sociale debbano essere approvate da un consiglio di sorveglianza composto per metà dai rappresentanti dei lavoratori ancorché al presidente, espressione degli azionisti, sia concesso voto doppio in caso di parità. Non basta ai teorici dello shareholder value che in Volkswagen la richiesta di indire uno sciopero possa essere rifiutata dalla segreteria nazionale dell’Ig Metall ove non sia sostenuta da almeno i tre quarti degli iscritti coinvolti. Non piacciono nemmeno le ampie protezioni della maternità, i permessi retribuiti, l’ora- rio di 33 ore per i vecchi assunti e di 35 ore per i nuovi, la contrattazione sindacale costante dello straordinario. Eppure, tutto questo — che nell’Italia di oggi viene considerato un lascito del passato da cancellare — non impedisce a Volkswagen di fare investimenti industriali per il 6,6%del fatturato nel 2009 contro il 4,3%della Fiat e perfino di diventare per qualche giorno nel 2008 la società con il più alto valore di Borsa del mondo — il titolo arrivò a 500 euro — in seguito alla battaglia senza esclusione di colpi tra lo spregiudicato scalatore Porsche e i brillanti hedge fund ribassisti, entrambi finiti, poco dopo, nella rete dei «grigi» industriali di Wolfsburg.