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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

AOL-HUFFINGTON, RIVOLUZIONE NEWS

«Ma dove hanno preso tutti quei soldi?», è stata la domanda che si sono posti gli analisti di fronte all’acquisto dell’Huffington Post da parte di Aol all’inizio della scorsa settimana. Una domanda che non deve aver avuto risposte molto convincenti, tant’è vero che il titolo valeva 20 dollari a fine settimana contro i 25 del momento dell’annuncio. Ma anche una domanda oziosa: Aol, è l’opinione comune, deve fare un acquisto del genere per non perdere l’opportunità probabilmente irripetibile di entrare in grande nel business dell’informazione online, lo stesso su cui si è scaraventato Rupert Murdoch con il suo giornale per l’iPad e in cui con sempre maggiore convinzione si stanno posizionando i maggiori gruppi editoriali del mondo. E allora vale la pena di fare qualche sacrificio: dei 315 milioni di dollari impegnati nell’acquisizione ben 300 saranno in contanti. Li incasserà quasi tutti Arianna Huffington che aveva investito 1 milione appena 5 anni fa insieme al cofondatore Kenneth Lerer, guarda caso un exdirigente di Aol. È l’equivalente, ha rilevato puntigliosamente la Sec, del 40% delle riserve cash di Aol, 802 milioni dopo che il gruppo già ne ha spesi oltre 500 per le acquisizioni preHuffington. L’amministratore delegato di Aol, Tim Armstrong, si gioca tutto con quest’operazione. Le misure da intraprendere per non perdere il passo con il settore, anzi per entrare nel Gotha editoriale dell’era Internet 2.0, il Ceo le ha delineate in un memo interno intitolato "The Aol Way", 48 slide divise in tre capitoli, il passato, il presente e il futuro:
1)Un preoccupato riassunto dei conti di Aol: nel quarto trimestre 2010 il fatturato pubblicitario è crollato del 29% sullo stesso periodo del 2009 fino a 332 milioni e quello degli abbonamenti a sua volta ha perso il 23%. Nel complesso le revenue trimestrali si sono fermate a 596 milioni. Solo grazie a uno spietato programma di tagli interni si è riusciti a chiudere il trimestre in utile per 66,2 milioni ma per l’intero anno il risultato è negativo per 782 milioni su un fatturato di 2,4 miliardi (26%). Quello che è più allarmante è il progressivo sgretolamento del modello di business, rimasto sostanzialmente lo stesso da quando Aol fu fondata nel 1990 da Steve Case, basato sulla vendita dei servizi Internet a partire dall’accesso (per il quale Aol si fa pagare da 10 a 25 dollari al mese). Da allora tutto è cambiato, soprattutto per l’avvento della banda larga, e lo stesso concetto di "portale" è superato.
2) Un chiaro disegno di cosa deve essere Aol secondo il Ceo: non più solo un portale né un mero aggregatore di notizie, ma un vero organo di stampa, diffuso, influente, autorevole. Al quale peraltro dovranno dare un contributo più convinto gli stessi reporter e collaboratori fissi del gruppo. Oggi, si legge in "The Aol Way", pubblicano 31.500 pezzi al mese: devono arrivare entro due mesi a 40mila. Parallelamente prosegue l’ampliamento del gruppo: in pochissimi anni ha comprato due importanti blog, Endgadget e Joystiq, l’agenzia pubblicitaria online Tacoda (per 275 milioni nel 2007), il social network Bebo nel 2008, poi pochi mesi fa il sito di notizie tecnologiche TechCrunch. Fino al "botto" di questi giorni, maturato a sentire i protagonisti nel giro di un pranzo in un ristorante italiano nell’Upper East Side di New York.
3) Una overview sul futuro, affidato in toto ad Arianna Huffington, nominata d’émble responsabile di tutto il comparto editoriale di Aol. Una nomina, per inciso, che già comincia a seminare malumori: «Voglio proprio vederla, lei abituata ad essere primadonna, chiusa in un briefing di quattro ore con un nugolo di quadri intermedi», ha detto velenoso un dirigente di Aol. Ma è stata proprio la sua personalità flamboyant, la rete di contatti che risaliva ai tempi in cui seguiva il marito senatore di Los Angeles, il suo accesso alle celebrities sia hollywoodiane che washingtoniane, a dare la linfa al suo «blog antiBush diventato un giornale online bipartisan», come ci puntualizzò lei stessa due anni fa in un incontro nella hall di un albergo romano. Essendo una società privata non rilascia cifre di bilancio, ma ha fatto sapere che nel 2010 ha chiuso in attivo con una raccolta pubblicitaria di 30 milioni e 20 milioni di utenti unici al mese: il nuovo maxigruppo ha un potenziale, ha detto Armstrong, di arrivare a 117 milioni di utenti solo negli Stati Uniti e 270 in tutto il mondo.
Per Aol è il secondo tentativo di affacciarsi sul fronte dei contenuti editoriali. Stavolta non può sbagliare. Il primo fu la fusione con TimeWarner, caposaldo della old economy editoriale che si tentò di integrare nell’aziendasimbolo della new economy. Ma andò malissimo. Sciagurato fu il timing dell’operazione: il merger fu annunciato il 10 gennaio 2000, mentre il Nasdaq viveva le ultime fiammate del boom delle compagnie Internet. Il prezzo fu fissato in 183 miliardi di dollari, la più grande acquisizione della storia, destinata ad eclissare quella di pochi mesi precedente che aveva portato la Sprint nelle braccia della MciWorldCom per 99 miliardi di dollari. Un’operazione quest’ultima a sua volta illfated, segnata dal destino: nel 2002 la conglomerata SprintMci fallì, e restò la maggior bancarotta della storia fino al crack di Shearson Lehman del settembre 2008. Ma c’è di più: in connessione con il fallimento, Bernie Ebbers, il plurimiliardario patron prima di Mci e poi dell’intero gruppo (oltre che della squadra di hockey dal nome profetico Jackson Bandits), fu processato nel settembre 2005 per frode, insider trading e truffa da 100 miliardi, a sua volta il più grande imbroglio della storia prima di Madoff. Fu condannato a 25 anni che ora sta scontando nell’Oakdale Federal Correctional Complex in Louisiana. Ma torniamo ad AolTimeWarner. Al momento dell’annuncio, gennaio 2000, Aol valeva 160 miliardi, già meno dell’ammontare del merger che doveva essere saldato, diceva l’accordo, interamente in azioni. Per le quali l’analista Mary Meeker, la guru del Nasdaq d’oro, prevedeva una salita infinita e quindi una plusvalenza dorata. Le cose andarono all’opposto. Il titolo cominciò subito a perdere, mentre i protagonisti del Nasdaq ballavano le ultime danze del Titanic: il 3 marzo 2000 il mercato tecnologico segnò il record storico a quota 5.023,45, poi il crollo a capofitto. L’azione Aol, che valeva 49 dollari in gennaio, a quel momento a stento raggiungeva i 30. Il declino proseguì a ritmo crescente per tutti i mesi e gli anni successivi. A metà 2000 la capitalizzazione si era ridotta a 80 miliardi, poi sempre più giù. Ma l’affare doveva andare avanti come da accordi e fu chiuso in settembre. Dal quel momento la conglomerata dovette indebitarsi per cifre apocalittiche, le perdite di bilancio e le svalutazioni delle poste contabili e del titolo in Borsa si fecero di anno in anno più pesanti. Steve Case, il già ricordato fondatore di Aol che era stato uno dei leoni del successo delle dotcom e aveva fortemente voluto la fusione, fu estromesso brutalmente dal cda nel 2005. Finché, inevitabile e tardivo, il divorzio nel 2009 e l’inizio di una nuova vita per gli expartner, ognuno dei quali è di proprietà del rispettivo azionariato diffuso.
Così Aol all’inizio del 2010 si è ritrovata pari pari i problemi che aveva esattamente dieci anni prima: come fare per entrare nel pianeta dell’editoria e dispiegare finalmente le sinergie con il suo business in Internet nel quale è stata pioniera. La scelta che si è fatta dopo le prime acquisizioni, l’acquisto dell’ "HuffPo", come viene chiamato, se sicuramente è caduta su un prodotto di successo, incontra parecchie critiche. Intanto le perplessità che si diceva sulla personalità della fondatrice. Tra l’altro non le si perdona di aver cambiato bandiera: il marito Michael Huffington era un senatore repubblicano negli anni ’80, lei è stata per anni un’attiva antifemminista, supporter del leader ultraconservatore Newt Gingrich per il quale fondò il pensatoio Progress and Freedom Foundation. Si batté perfino per le dimissioni di Clinton ai tempi dello scandalo Lewinski, finché la metamorfosi: «E’ bastato guardare quello che faceva Bush», ama ripetere. Nel 2004 scrisse un libro dal titolo che più esplicito non si può, Right is Wrong. Poi, creò l’HuffPo che ebbe come primo commentatore l’indimenticato Walter Cronkite, il più autorevole editorialista liberal della storia dei media Usa. Ma soprattutto, è stato decisivo il sostegno a Barack Obama in ogni passo della sua campagna.
Ora, apparendo in tv a fianco di Armstrong, si sforza di dire che "è ora di superare l’antagonismo fra destra e sinistra". Ma la politica ce l’ha nel sangue: sta cercando di crearsi uno spazio a sinistra di Obama, in quell’area dominata da Paul Krugman, di "delusi ma speranzosi". E si è lasciata scappare che con il sito Patch.com, che fa parte di Aol ed è specializzato in notizie locali (800 corrispondenti in altrettante città Usa), «si potranno fare grandi cose nella campagna elettorale del 2012». A dare loro una mano è sceso in campo persino il "vecchio" Steve Case, che conosce Obama fin da bambino (sono nati entrambi a Honolulu, lui tre anni prima del presidente nel 1958), l’ha a sua volta finanziato copiosamente dalla sua posizione defilata di benefattore (ha investito i soldi della liquidazione in una fondazione per lo sviluppo dell’Africa): «Mi sembra una mossa vincente per rilanciare un marchio glorioso nella storia americana», ha affermato a proposito del merger. Stringeva un po’ i denti, e si capiva tutta la rabbia per non esserci.