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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

LA GRANDE YALTA DELLE BORSE MONDIALI

È bastata Una manciata di ore per far ridisegnare gli equilibri mondiali delle Borse: in un caso Londra, Milano e Toronto con un annuncio definitivo (o quasi, ci vogliono comunque le autorizzazioni d’uopo) nell’altro Francoforte, Parigi e New York con l’ammissione di "colloqui avanzati". Un’accelerazione a sorpresa? Non del tutto, era stato proprio il numero uno del London Stock Exchange, Xavier Rolet, in un’intervista a Repubblica a fine 2009, ad annunciare l’arrivo dello tsusnami: «Così come l’economia è del tutto globalizzata, allo stesso modo ci aspettiamo una riduzione del numero delle Borse mondiali». Forse non più di cinque nei prossimi cinquedieci anni».
A un anno di distanza la previsione ha cominciato a prendere forma concreta. Quello che ancora non sembra quadrare con la visione di lungo termine del manager francese è la suddivisione geografica dei nuovi giganti borsistici: «Ci sarà una sola grande società per ogni macroarea aveva sostenuto Rolet dall’America all’Asia, dall’Europa ai paesi arabi. E, in Europa il processo di consolidamento non potrà che progredire». In realtà, già allora lo stato dell’arte non era strettamente in linea con le parole di Rolet: la battaglia che si era consumata qualche anno prima, a favore di un grande mercato dell’area euro, era già stata persa, nonostante i leader europei avessero cercato accordi per mettere le basi di una grande Borsa dell’eurozona e il cancelliere Angela Merkel e l’allora presidente del consiglio Romano Prodi si fossero spesi per una fusione tra Milano e Francoforte. Erano anche gli anni in cui i manager di Deutsche Boerse avevano provato inutilmente a scalare l’azionariato del London Stock Exchange: dalle rive del Tamigi, i vertici del Lse avevano respinto ben tre rilanci neanche fosse una riedizione della Battaglia d’Inghilterra.
E anche ora non proprio di fusioni si sta parlando: quello cui si sta assistendo, in realtà, è la creazione di scatole societarie che controllano le societàmercato, le quali tuttavia restano autonome nell’operatività e spesso nelle regole di funzionamento. Non è, necessariamente, un male: è forse proprio per questo che hanno dimostrato tutto sommato di muoversi bene anche unioni all’apparenza poco compatibili, con valute diverse, legislazioni e regolamenti differenti, autorità di controllo di svariata natura. E’ andata così per la City e Piazza Affari, ma anche per l’altra grande aggregazione già in atto, quella tra il Nyse ed Euronext (la società di gestione di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona), per non parlare di Omx (in sostanza le Borse scandinave, sotto l’egida di Stoccolma) che poco dopo è entrata nell’orbita del Nasdaq. In realtà, quindi, più che macroaree omogenee il modello che sembra funzionare di più è quello degli apparentamenti da una sponda all’altra dell’Atlantico; che ora promette di arricchirsi di una nuova pedina, con il ménage à trois di LondraMilanoToronto.
Dunque, vengono messe a fattor comune una serie di elementi, primi fra tutti quelli tecnologici, che consentono di realizzare importanti economie di scala, a partire dalle piattaforme tecnologiche. Ma il tipo di integrazioni che si stanno realizzando integrazioni orizzontali di Borse, non verticali di funzioni stanno lasciando in realtà abbastanza invariata la liquidità dei relativi listini. Infatti, solo se si hanno tutti gli aspetti di un mercato perfettamente uguali si arriva realmente all’integrazione dei relativi listini, con società quotate contemporaneamente su più piazze. Cosa che finora non è mai avvenuta: da questo punto vista, spiega un po’ provocatoriamente un osservatore, anche dalla prossima fusione con Toronto non ci sono elementi negativi all’orizzonte per Piazza Affari, ma non è nemmeno altrettanto scontato che ve ne siano di positivi. Insomma, potrebbe anche avvenire che gli effetti siano nulli.
In realtà, nemmeno la tecnologia in sé è neutrale. Basti pensare ai problemi che ha creato il lievissimo ritardo nella trasmissione ordini tra Milano e Londra pur usando gli stessi sistemi operativi, o ancora alla necessità che hanno avuto gli operatori italiani di dotarsi di nuovi sistemi operativi per uniformare gli scambi. La storia potrebbe almeno in parte ripetersi, con Toronto, con un aggravio dei costi che avrebbe ragion d’essere solo se bilanciato da maggiori volumi (scommessa tutta da verificare).
Vantaggi concreti potrebbero semmai venire dall’espandersi di segmenti particolari di business: ad esempio è noto che le eccellenze italiane sono in particolare nel reddito fisso sia retail sia all’ingrosso, con Mot e Mts con modelli di mercato facilmente esportabili anche all’estero (al punto che sono stati "venduti" fino al Giappone) sia nel post trading. Soprattutto quest’ultimo rappresenta un fiore all’occhiello, e non a caso, come ha ricordato lo stesso Rolet nella conferenza a Toronto di pochi giorni fa, il 50% dei ricavi di Lse viene da Borsa italiana.
E del resto, basta guardare alla "forza" della Germania in particolare derivati e post trading per capire come mai nelle trattative appena annunciate con il Nyse Euronext, Francoforte avrebbe la maggioranza assoluta della holding di nuova costituzione. A questo stadio Francoforte sembra puntare soprattutto a Euronext. Ma un domani potrebbe guardare anche alle altre due Borse di un certo rilievo che, al momento, sono rimaste spaiate in Europa: Zurigo, che al momento ha l’handicap di essere fuori dall’area dell’euro, e Madrid, che tra le piazze del Vecchio Continente è quella con il valore più basso per capitalizzazione delle società quotate.
L’altro fattore di riorganizzazione dei mercati è la spinta crescente che viene dalla concorrenza dei Multilateral trading facility: insomma, dai vari Turquoise (comprato proprio dall’Lse) che erodono margini di volumi alle Borse tradizionali, sebbene questa argomentazione sia secondo alcuni osservatori vera solo a metà. Secondo varie statistiche, infatti, la metà degli scambi "persi" dalle Borse tradizionali in realtà sono transazioni che altrimenti non ci sarebbero state. Dunque, si tratta di volumi aggiuntivi piuttosto che sostitutivi.
Di sicuro, quanto è accaduto e sta accadendo tra Europa e America non potrà che avere ripercussioni in un’altra macroarea, quella asiatica. Fino ad una settimana fa, nonostante la crescita senza eguali degli ultimi 34 anni (sia per numero di quotazioni sia per capitali attratti) i listini dei paesi emergenti hanno fatto corsa separata. Nell’Estremo Oriente per ora solo Singapore si è mossa, lanciando un’offerta per rilevare la maggioranza della Borsa di Sidney.
Ma all’indomani del doppio annuncio "atlantico", si è mosso uno dei colossi asiatici: i vertici della Borsa di Hong Kong, in una dichiarazione ufficiale, hanno ammesso di valutare «alleanze e partnership internazionali» e si sono detti disponibile «visti i cambiamenti nello scenario finanziario borsistico» a collaborazioni «e altri rapporti» ma soltanto nel caso in cui offrano «benefici strategici in linea con il suo focus sulla Cina».
Insomma, la spinta ad aggregarsi sembra inarrestabile e sempre più veloce. Resta da capire quanto siano davvero efficienti mercati così grandi e, problema correlato anche se non identico, come si articolino i vari interessi che ruotano intorno alle Borse, visto che ormai le strutture pubbliche sono un ricordo lontano. «Abbiamo assistito alla profonda trasformazione delle Borse, che sono ormai società quotate esse stesse spiega Carmine Di Noia, vice direttore generale di Assonime che tengono sempre più conto degli interessi dei loro clienti, i quali spesso sono anche azionisti delle Borse medesime».
In realtà, la platea degli stakeholder, di coloro che a vario titolo hanno interessi nelle Borsemercati, è più ampia dei clientiazionisti. A partire dai prezzi praticati, o dalla pressione a far aumentare il numero di società quotate al listino, che può far bene ai conti della Borsa ma non necessariamente anche a chi ci investe (tenendo presente che, su qualsiasi mercato, la moneta cattiva scaccia quella buona...). C’è chi parla di conflitto di interessi implicito, tra la Borsamercato e il mercato in sé; quantomeno possono crearsi contrapposizioni. E non a caso in Italia si torna a parlare di separare le attività "pubblicistiche" sopravvissute nelle Borse, ormai assolutamente private e quindi giustamente orientate al profitto: in Gran Bretagna, del resto, è già così, comprese le attività di listing affidate appunto alla Fsa.
Si potrebbe fare un passo indietro anche in Italia, dove le competenze sono in parte della Consob, ma per molti aspetti anche di Borsa italiana. Che, nonostante questo, paga circa quattro milioni l’anno di contributi all’Autorità di vigilanza.