Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 13 Domenica calendario

DOVE C’È BOLLA, C’È GOLDMAN SACHS


Sulla scrivania di Joseph Jiampietro sono passati, nei momenti più bui della crisi finanziaria, alcuni dei dossier più scottanti. Jiampietro (sì, con la J, quasi a nascondere un probabile passato italiano) è stato infatti il braccio destro di Sheila Bair, la responsabile del fondo di garanzia bancaria. In questo ruolo Jiampietro ha condotto, in prima persona, la liquidazione di 110 banche. Ma, più ancora, ha avuto il compito di valutare i legami d‘affari tra gli istituti e gli hedge funds, compresi quelli più vicini alle banche d’affari.
Per questo motivo ha fatto scalpore, ieri, la notizia che il funzionario governativo ha dato le dimissioni per passare ad un ben remunerato incarico di consulente per Goldman Sachs, la regina delle banche d’affari che nei crack del 2008/09 ha avuto non poca voce in capitolo. Ma anche questo è un segno dei tempi. In passato, Goldman è stata la palestra per molti uomini chiamati a prestigiosi incarichi pubblici, compresi l’ex segretario al Tesoro di George Bush, Hank Paulson, o di Bill Clinton, Robert Rubin. E lo stesso Tim Geithner, ministro di Obama, è stato caldamente raccomandato dalla banca, grata per il suo ruolo (troppo morbido, tuonano gli accusatori) ai vertici della Fed di New York. Oggi, il percorso è l’inverso: sotto il fuoco di fila delle critiche e il peso della multa da 550 milioni di dollari pagata alla Sec nel 2010, la banca ha bisogno di uomini che possano vantare esperienze nell’amministrazione pubblica.
Goldman Sachs, del resto, ha un ottimo argomento per attrarre gli elementi migliori: gli stipendi d’oro, soprattutto in tempi di crisix e di guai per i clienti. Pochi giorni fa il “New York Times” ha rivelato che a fine 2008, i vertici di Goldman non potendo distribuire gratifiche milionarie all’altezza degli anni precedenti, hanno emesso a favore dei dipendenti, in tutto 35 mila, un numero impressionante di stock options: 36 milioni. All’epoca il titolo valeva 78 dollari circa, oggi oscilla attorno a 175. Ovvero, i dipendenti si ritrovano in tasca un valore teorico di circa 3,6 miliardi. Certo, è un valore teorico perché esistono clausole specifiche per evitare che su Wall Street si rovesci un numero eccessivo di titoli. Ma è pur sempre una bella cifra.
Negli ultimi dodici anni, calcola il New York Times, i partners, in tutto 860 persone se si tiene conto dei pensionati, si sono distribuiti la bellezza di 20 miliardi di dollari. Lloyd Blankfein, un signore che nel 2009 ha guadagnato 75 milioni di dollari, ha incassato circa 450 milioni in titoli (di cui 93 già realizzati). Insomma, il mestiere di cavalcare le “bolle” rende bene. Già, perché dal Duemila in poi non c’è stata euforia finanziaria seguita dallo sboom che non abbia avuto Goldman Sachs tra i protagonisti principali e più consapevoli. Già, perché i primi a capire che la “bolla” immobiliare dei subprime era destinata a finire in un bagno di sangue furono gli esperti di Goldman.
Ma attenzione: non per avvertire la Fed che era il momento di stendere una rete di protezione, semmai per cercare il modo per sfruttare i clienti, rifilando loro patacche finanziarie piene di titoli legati a prestiti subprime destinati a valere zero. E’ questo almeno il sospetto della Sec. Anche perché, nella scorsa primavera, è esplosa la “grana” della Grecia. E’ stata Goldman Sachs a fornire ad Atene gli strumenti tecnici per abbellire i conti, in vista dell’ingresso nell’euro. Ma, soprattutto, nel 2009 è stata Goldman, consapevole del reale stato dei conti di Atene, a speculare contro il debito greco.
Non stupisce, di fronte a questi comportamenti, la pessima fama di cui i banchieri di Goldman godono in patria e fuori. Una reputazione che danneggia i buoni affari. Come quello di Facebook. Memore della bolla Internet del Duemila, in cui Goldman accumulò miliardi di dollari, la banca ha acquistato una bella fetta di titoli di Facebook per la ragguardevole cifra di 450 milioni di dollari, per rivenderli ai suoi clienti migliori. Al momento della quotazione, prevedono in Goldman, i titoli andranno alle stelle. E i miliardari con il conto presso Gs faranno nuovi affari d’oro a scapito dei “gonzi”. Ma la levata di scudi dell’opinione pubblica, stavolta, è stata così veemente che Goldman ha dovuto limitare l’offerta ai clienti non americani. Poco male. Gli altri possono rifarsi con le speculazioni sulle materie prime o sul petrolio, finanziate con i profitti realizzati a Wall Street. Perché anche stavolta quelli di Goldman sono stati i più bravi, anticipando in un report di ottobre la ripresa del mercato. Insomma, non è facile fare a meno di loro. Anche se, di questi tempi, l’etichetta Goldman non va di moda. E potrebbe accorgersene anche Mario Draghi, il governatore di Banca d’Italia in corsa per la successione a Jean-Claude Trichet alla Bce: il suo passato da vice president di Goldman è forse il principale ostacolo sulla strada che porta a Francoforte.