Elisabetta Ambrosi, il Fatto Quotidiano 13/2/2011, 13 febbraio 2011
MAURIZIO BATTISTA TRA IL BANANA E IL PORTA BANANE
Giura che non parlerà di politica, perchè di fronte alle notizie sulle feste di Berlusconi non sa proprio che dire. Però una cosa gli rode davvero: “Ha alzato troppo i prezzi delle escort, prima con due o tre piotte andavi con una di tutto rispetto, ora ti tocca sganciare almeno tremila”. Ma alla fine confessa: “Per cinquemila euro gliela avrei data pure io se ce l’avessi avuta, c’è chi la dà per molto meno; anzi, c’è chi si sposa per darla, e poi dopo il matrimonio smette” (e si capisce perché, “quella dopo vent’anni è tua sorella, però se fai finta di guardarla con gli occhi del tuo vicino magari qualcosa cambia”).
DAI POTENTI ai poveri cristi: la forza del comico romano Maurizio Battista, in scena questi giorni al Teatro Olimpico di Roma con lo spettacolo Sempre più convinto..anzi convintissimo, è sempre la stessa: raccontare l’esistenza della gente normale, quella a cui tocca barcamenarsi con una vita di coppia lontana anni luce dai fasti del premier. Dove il marito dice alla moglie che va a pescare alle cinque di mattina, poi si butta in macchina magari solo per dormire, e torna col pesce con lo scontrino nella busta. O, peggio, «capato», grida uno dal pubblico. Una tragicomica quotidianità che i giornali, una categoria da sempre presa di mira dal comico, non sanno più raccontare, perché “non c’hanno manco idea di che significa aprire il bar alle cinque di mattina”. E proprio dagli occhi impastati di un Battista bambino, trascinato all’alba nel bar del padre, parte il monologo sull’infanzia che apre lo spettacolo. Un’infanzia, la sua e quella di tutti i nati nei Sessanta, dove ti menavano un po’ tutti, e pure i giochi erano fatti con le mani (memorabile il “vola gigino, vola gigetto”); dove si vedevano film come La corsa dei cocomeri in salita o Cancelli sul mare; dove, soprattutto, c’era ancora il telefono duplex, “che appena suonava il citofono attaccavi, tanto sapevi che era Lui, il vicino”. L’infanzia delle vacanze al mare ad Anzio, “che si stava un mese e ci si portava di tutto, praticamente uno sfratto esecutivo”, in case dove si dormiva in nove sulle reti, e la gente non sapeva né leggere né nuotare, però “magnà sì”. E infatti comprava “cinque chili di ciriole”, altro che chi oggi “va al forno o al bar a chiedere con voce esangue una ciabattina o il cornetto piccolo, mi raccomando” (“signora non si preoccupi, è così piccolo che lo stanno a prenne tutti per culo dentro la cesta”). I ragazzini coi costumi di spugna - “ce n’ho uno fracico da nove anni”; gli adulti con i pantaloncini senza rete, sbracati al sole fino a che qualcuno gli sussurrava “zì, c’hai una palla in fuori gioco”. I bagni dopo aver mangiato la parmigiana, «che eri già morto sulla riva», il kit delle vacanze: setaccio - “se trovi una pepita portala a mamma, se trovi uno stronzo a tuo padre” - e paletta: “ma non ci scavare le buche”, “ma allora che ci faccio, i posti di blocco sulla nettunense?”. Poi comincia lo spettacolo vero e proprio, con l’esibizione degli oggetti assurdi che invadono le nostre vite - dal portabanane di plastica “che se lo metti nella tasca dei pantaloni ti fanno spazio sulla metro” al braccialetto che ti sveglia se russi (“quindi non è che non russi, non dormi proprio”). E la presa in giro del solito provincialismo italiano, quello per cui davanti ad un bar in ristrutturazione puoi trovare la scritta work in progress, “ma a Manhattan troveresti mai il cartello stamo a restrutturà il baretto?”. O quello che, ignaro dei limiti del popolo italiano, spinge un produttore a fare una fiction che imita Csi, “Ris Roma”. Dove già alla richiesta di correre urgentemente per un cadavere la riposta è: «che fretta c’è tanto è morto»; ma poi, ammesso che si arrivi alla scena del delitto, si finisce per scoprire che è sparito il nastro per circondare la zona (“ispettore, mio cognato sta a fa un pozzetto a Frascati”). Ma ad essere ridicolizzato è anche il radicalscicchismo, l’altra faccia del provincialismo. Quello, ad esempio, dei ristoranti dove ti chiedono sussurrando se hai prenotato e poi, dopo aver consultato pensosamente un libro, ti indicano il tavolo libero proprio accanto. E se domandi tortellini con panna ti guardano schifati, dicendo che “la panna loro non la mettono manco sul gelato, che io se fossi quelli della Panna Chef farei una sommossa”. Esilarante, anche, il racconto di un Battista capitato per caso ad un concerto di Mozart , dove scopre che il signor Stockhausen (che impersonava, tra una pausa e l’altra, l’ascoltatore immaginario delle suonate), esiste davvero e non è un modo per dire “signor sto caz..”. Tra i politici messi alla berlina, un Alemanno che propone la Formula 1 a Roma scordando che “i romani non fanno passà manco la macchina della polizia, figuriamoci una McLaren”; o chi vagheggia un aeroporto a Viterbo, “così ci metti quindici ore da Bankgok a Viterbo e altre quindici da Viterbo a Roma”.
CHIUDE un poetico omaggio alla madre, morta troppo presto, e che lui fa rivivere seduta nel pubblico, con la borsetta sulle ginocchia. Quasi un archetipo della Mamma, quella che un tempo “ti tirava lo zoccolo “intelligente”, che ti inseguiva e se ti nascondevi si nascondeva pure lui”; a cui segue, sempre un po’ dopo, la Moglie, che - in uno dei pezzi più noti - costringe il marito ad andare al supermercato, salvo poi trasformarsi in una sorta di Medea pronta a sbranarlo per ogni passo falso negli acquisti. Eppure, quando magari se ne va, anche se ti consoli sapendo “che forse ti voleva bene veramente, no come quella che ti sta addosso da quarant’anni come una zecca”, alla fine piangi. Perché di due cose il comico è convinto. Primo, che sono le donne a portare avanti il mondo. Secondo, che la vera distanza, lui che pure è più vicino alla destra popolare, non corre più tra destra e sinistra. Ma, come da sempre forse, tra potenti e poveracci.