Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 13/2/2011, 13 febbraio 2011
IL SILENZIO IRREALE DI GIZA: LE PIRAMIDI SONO SPOPOLATE
Colto alla sprovvista, l’addetto alla biglietteria, un uomo sui 60 anni con una barba ben curata e una camicia linda, si scusa per essersi assopito. Due giorni senza far nulla sono lunghi. Inforca gli occhiali e strappa subito il biglietto. È il quarto della giornata, e sono già le due; manca un’ora alla chiusura. Sulla scrivania ci sono decine di blocchetti ancora intonsi. «In questo periodo – commenta sconsolato - a quest’ora ne avevamo già staccati 10mila. Le piramidi di Giza sono l’orgoglio del nostro Egitto».
Davanti a lui l’enorme parcheggio per gli autobus è deserto. Al di là di qualche svogliato poliziotto non c’è anima viva. Poco più indietro, centinaia di guide improvvisate cercano di attirare l’attenzione. Gridano, qualche volta sono aggressive. Due di loro si infilano nel nostro taxi e non vogliono saperne di scendere. Prima di accedere al sito un poliziotto ironizza: «Benvenuti alla Giza del dopo Mubarak». Se non fosse per una stretta stradina asfaltata, l’impressione è di tornar indietro di 3.500 anni. Intorno alle tre grandi piramidi c’è solo il silenzio.
La voce di Mohammed Atif Abdel Meghi, 25 anni, echeggia nel vuoto. La sua famiglia da tre generazioni svolge lo stesso lavoro: accompagnare i turisti tra le piramidi con i loro cavalli smagriti. «Non ho clienti dal 25 gennaio», si lamenta. «Solo per il foraggio dei nostri sette cavalli spendiamo 120 pounds (circa 15 euro), per la tangente alla polizia che ci fa entrare nel sito altri 70. Risultato: non sappiamo come andare avanti».
Fino a 19 giorni fa Mohammed guadagnava 600 pounds (75 euro). Nelle sue stesse condizioni ci sono altre centinaia di famiglie di Giza, e migliaia di venditori, proprietari di negozi di souvenir, hotel e ristoranti. Sono davvero pochi ad esser felici contenti per la caduta di Mubarak. «Sarà stato anche un dittatore, ma almeno si lavorava», conclude Mohammed. La pensa così anche Sabri el Dekhil. Poi racconta quel 28 gennaio, quando in piazza Tahrir uno squadrone di egiziani a cavallo e cammello – quasi tutti di Giza - armati di bastone, seminarono il panico tra i dimostranti: «La sera del 27 un funzionario del partito democratico nazionale ci radunò e ci disse: se Mubarak cade, nessuno vi farà più entrare alle piramidi. Farete la fame. Andate a manifestare per il presidente. Mio fratello ci andò, fu ferito e gli fu sequestrato il cavallo».
Il villaggio turistico di Giza ha ora un aspetto spettrale. Ismail Mohammed Ma’atar era un uomo invidiato. Il suo supermercato era sempre pieno: «Sono triste. Con Mubarak l’Egitto era un luogo sicuro e arrivavano molti turisti. Ora cosa ci riserverà il futuro? Io non riesco più a pagare l’affitto». Di fianco, il moderno negozio di papiri di Mahed Rifai non vende un pezzo da dieci giorni. «Sono contento per il nuovo Egitto ma se guardo al mio business, chissà quando torneranno i turisti...».
La domanda che si pone Mahed è la stessa che tormenta l’esercito di egiziani che vivono di turismo. Nel 2010 il quarto settore del paese, dopo l’energia, l’agricoltura e il commercio, ha portato oltre 12 miliardi di dollari. Da quando le proteste sono iniziate, più di un milione di turisti hanno abbandonato il paese (nel 2010 erano stati 12 milioni). E se le cose si trascineranno a lungo, si teme che nel 2011 ci sarà un calo del 40% delle entrate.
Il Museo egizio resta chiuso, i principali siti storici e archeologici del Cairo sono riaperti. Ma i turisti sono davvero pochi. Al di là delle località balneari sul Mar Rosso, che sperano in un rientro imminente, lo stesso copione si ripete in gran parte del paese. «Negli ultimi tre giorni a Luxor ho visto tre turisti – ci spiega al telefono Ashrah , egittologo - di questi tempi arrivavano 10-15mila persone ogni giorno».
Samy Anton, manager dell’agenzia Ittatours nel centro del Cairo, è rassegnato: «Nessun cliente da due settimane. Siamo aperti ma solo perché dobbiamo terminare le pratiche dei rimborsi».