Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 14/02/2011, 14 febbraio 2011
PASSARE IL MARE COSTA 1.500 EURO. DA PESCATORI A TRAFFICANTI DI UOMINI —
Il pescatore che chiameremo Farhat, nome che condivide con migliaia di suoi concittadini, si nasconde da tre giorni in una piccola rimessa di Zarzis. Da giovedì scorso ha venti morti sulla coscienza. Dopo una vita passata a issare a bordo seppie, calamari e polpi, aveva ceduto alla tentazione di diventare ricco in una notte. Un carico solo, poche decine di disperati in fuga, avrebbero fruttato 30 mila euro, l’equivalente di quattro-cinque anni di lavoro con cime e reti.
Ieri sera un forte «Maestrale» gonfiava gli ombrelloni solitari delle spiagge e scompigliava le divise di circa 300 militari spediti dal governo «rivoluzionario» (e comunque provvisorio di Tunisi) per tamponare la falla più vistosa. Da qui, da uno specchio d’acqua largo qualche chilometro che separa il braccio più corto del porto dalla zona dei grandi alberghi, sarebbero salpati, negli ultimi giorni, almeno 3 mila (ma c’è chi dice anche 5 mila) tra uomini, donne e bambini piccoli, ragazzi e ragazze in solitudine. Non tutti hanno visto l’alba italiana. Sabato scorso le motovedette tunisine hanno speronato un barcone con 120 immigrati, a poche miglia dalle acque italiane. L’imbarcazione si è spezzata: si sono salvati in 25, 7 morti accertati, tutti gli altri dichiarati dispersi.
Ora sul piccolo promontorio brilla soltanto la torre di una piccola raffineria, proprietà del gruppo pubblico Sitep. La notte del deserto sembra ancora più fredda, con i soldati in assetto di guerra, i vigili con lunghi bastoni, i cavalli di frisia a proteggere la sede del governatorato e la piazza centrale. Vento contrario e mitra spianati: per stanotte non si salpa.
Zarzis è una cittadina di cinquecentomila abitanti, l’anima della Tunisia meridionale, appoggiata su un promontorio appena sotto le spiagge leggendarie di Djerba e a 75 chilometri dalla Libia. L’orgoglio locale vanta la qualità dell’olio dal gusto denso e robusto e il sapore della Besissa, una variante iper proteica del cous-cous nazionale. Perché pure qui, da sempre, il Sud si autorappresenta come calore, amicizia, energia, in contrapposizione con il Nord calcolatore, diffidente e un po’ snob di Tunisi o Hammamet. Ma anche in questo caso, come in altri centomila in giro per il mondo, le rappresentazioni di maniera non sempre reggono alla prova dei fatti. Un tempo, negli anni Sessanta, subito dopo la conquista dell’indipendenza (1956), Zarzis divenne la testa di ponte per la partenza di una generazione rimasta legata all’antica madrepatria. Ancora oggi alcuni sobborghi di Parigi (come Massey) sono colonie di tunisini con il passaporto rilasciato a Zarzis. E le tracce di quell’epoca ancora rivivono nelle ville stile padronale costruite con le rimesse di quei primi migranti.
Oggi, però, la luce di Zarzis si è convertita nella zona più buia del nuovo corso tunisino. Lungo le strade costeggiate da case bianche e basse ci sono almeno altri 10 «Farhad» che hanno messo da parte esche e matasse per «pescare» nel mucchio di pellegrini in arrivo un po’ da tutta la Tunisia. Vengono dai villaggi rurali, dalle cittadine più attive nella rivolta che ha rovesciato solo qualche settimana fa il presidente (ora chiamato solo tiranno) Ben Ali. Makthar, Kasserine, Mazzouna, oppure le vicine Matmata, Medenine. Gli improvvisati «Farhad» più altri trafficanti «professionisti» li aspettano alla fine dell’esile statale che raccoglie il testimone dall’autostrada Tunisi-Sfax, con la modestia di una comparsa chiamata a subentrare all’egocentrico protagonista del Paese. Lungo la costa fino a Zarzis si rincorrono i camion dei contrabbandieri di benzina libica, sfrecciando beffardi davanti a poliziotti e militari «distratti» come ai vecchi tempi. Il carburante finisce in taniche da 5 o 10 litri, allineate su una miriade di bancarelle al lato della carreggiata, insieme con i fagiolini verdi appena raccolti e i montoni appena sgozzati che penzolano sui ganci davanti ai barbecue
A Zarzis arrivano braccianti che guadagnano 80 euro al mese; trentenni diplomati o laureati che hanno lavorato non più di sei mesi negli ultimi dieci anni (tasso di disoccupazione ufficiale: 25%); parrucchiere che non hanno mai fatto una «messa in piega» ; operai, piccoli impiegati, artigiani, manutentori, tutte vittime collaterali della rovina del sistema economico, sostanzialmente criminale, gestito dalla famiglia Trabelsi, il clan affaristico-parassitario guidato da Leila, la seconda moglie di Ben Ali.
Un fiume che trascina e mescola antica rabbia e più recenti (e forse troppo frettolose) delusioni per una rivoluzione che ha necessariamente bisogno di tempo per assestarsi. Non è una sola generazione, ma una parte di popolo quella che ogni giorno cerca una via di fuga nei porti defilati nel Golfo di Gabes: Nagra, Manres, Skhira, Midoun e, soprattutto, Zarzis.
Forse è presto per concludere che la Tunisia di oggi è uguale all’Albania del 1991, e non è ancora chiaro se la metamorfosi di alcuni pescatori di Zarzis sia il segnale di uno smottamento generale, di un «liberi tutti» capace di affossare il Paese. Per il momento i militari pattugliano le banchine dello scalo, gli investigatori cercano di ricostruire i movimenti dei trafficanti, e il governo di Tunisi ritiene «inaccettabile» il dispiegamento di polizia italiana sul territorio nazionale. I politici e i giornali di nuovo liberi si impegnano per stroncare sul nascere il modello clandestino di Zarzis. Dunque una barca da 10 metri costa 15 mila euro, ma può trasportare 40-50 clandestini. Un trasbordo verso l’Italia costa 1.500 euro a passeggero. Incasso totale: 60-75 mila euro. Anche se la nave viene sequestrata, «l’investimento» ha un ritorno economico che il più sofisticato finanziere di Wall Street può solo sognare. Ma c’è possibilità di guadagno anche per chi possiede soltanto una semplice bagnarola a remi. Perché le grandi imbarcazioni non possono avvicinarsi alla spiaggia, ecco allora entrare in azione decine, centinaia di «tender» artigianali. Cento euro per chi porta 5 «clienti» fino allo scafo ormeggiato al largo. E per i più assidui i «Farhad» offrono un premio. Un calcio alla barchetta e un salto a bordo di quel pezzo di Tunisia che sta andando alla deriva.
Giuseppe Sarcina