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 2011  febbraio 13 Domenica calendario

QUELL’ESUBERANZA MERIDIONALE CHE STEINBECK NON GRADIVA

Semplice, ma essenziale è il messaggio di John Steinbeck nelle sue corrispondenze di guerra (C’era una volta la guerra, Bompiani): la guerra è una brutta faccenda. Lo sapevamo, si dirà, fin dai tempi di Abele e Caino. È vero, ma quante cose si sanno fin dall’alba dei tempi e occorre sempre ripeterle! L’umanità ne memorizza, infatti, l’esperienza per un tempo brevissimo, sul quale piomba fulmineo l’oblio (di qui anche il titolo del libro). Un’ennesima predica, allora, contro la guerra da parte di un autore il cui antibellicismo è ben noto? No e, malgrado l’impegno per gli Stati Uniti e contro i nemici di allora, nemmeno una predica sulla «guerra giusta» , sulla crociata contro Hitler e il nazismo. Tutto ciò che si dice è che quella del 1939-1945 è stata (si spera) l’ultima come guerra mondiale nel senso letterale del termine perché, se ce ne fosse una terza, non sopravvivrebbe nessuno. Già nella prefazione (tutta interessante e da leggere) è detto che «i fatti descritti in queste pagine sono veri» , ma sono solo una parte di ciò che a suo tempo fu visto e vissuto. Un’altra parte o è stata dimenticata o, nella logica di collaborare allo «sforzo di guerra» , è stata taciuta per la censura e l’autocensura dei corrispondenti di guerra oppure perché questi sentivano la necessità di raccontare le cose in modo che i soldati che ne erano protagonisti le trovassero «necessarie e giuste» o addirittura «eroiche» , anche se le ritenevano tutt’altro che tali e ne fossero quindi più persuasi e rincuorati. Non è, comunque, quella eroica la prospettiva qui di Steinbeck quanto quella totalizzante del suo racconto. Ciò che egli ha più di mira è la realtà modesta e autentica dell’umanità che fa la guerra o la subisce, a qualsiasi livello. Nessuna mitizzazione. Molta aneddotica, invece, che entra non di rado nel pittoresco o nel banale. E neppure nessun protagonismo esibito o imposto dell’autore che, anzi, giunge su questo piano a raccontare le cose come se gli fossero riferite da altri e non viste da lui stesso. Alla fine, però, è così che si ha l’impressione di essere entrati appieno nel vivo della quotidianità e della realtà della guerra. Ed è qui per l’appunto che Steinbeck rivela meglio anche in questa occasione le sue qualità di grande scrittore del Novecento. Non è quello di Furore o dei grandi romanzi più drammatici e complessi. Né quello dei Pascoli del cielo e nemmeno quello de La luna è tramontata, che ad alcuni non parve fra i suoi libri migliori. Certo, però, è un prosatore non solo di grandissimo mestiere ma, molto spesso, anche di felice riuscita narrativa. Lo mostra subito la diversità delle sue corrispondenze a seconda dello scacchiere sul quale si muove: l’Inghilterra, il Nord Africa, l’Italia, anche se il quadro di riferimento è sempre la guerra, vista fino ai più modesti dei suoi aspetti di retrovia. In Inghilterra colpisce la sostanziale impermeabilità dell’ambiente inglese alla presenza così folta e vivace dei soldati americani, amici e invasori (si veda la celebrazione del 4 luglio, l’Independence Day, a Londra). Nel Nord Africa prevale lo scenario naturale e umano di un Paese molto diverso (la descrizione di Algeri, diventata «una città fantastica» con l’afflusso di tanta truppa straniera). In Italia sono gli italiani, specie quelli del Sud, a colpire i vincitori, con la loro cordialità esuberante, rumorosa, indiscreta, ma anche spregiudicata e di circostanza, che non giova alla loro immagine e reputazione (si vedano le pagine intitolate «Benvenuti» ). Così, il «colore locale» finisce con l’essere un forte motivo conduttore del libro, i cui protagonisti restano sempre e comunque, però, i soldati americani che rappresentarono gli Stati Uniti già al culmine della loro potenza, ma ancora saldamente ancorati a quella che era diventata la loro realtà morale e civile dopo la guerra di secessione. Questo esercito di popolo non lo avrebbero mai più avuto in seguito; ed è a questo esercito che Steinbeck rende un omaggio spontaneo e sommesso, componendo con le sue corrispondenze una sorta di singolare e moderno poema epico. Perciò, raccogliere queste corrispondenze non poteva dar luogo a un libro da considerare tra quelli «necessari» . Ma l’averlo fatto ci ha dato un libro di sicuro significato, oltre che di sicuro interesse, per le vicende di eccezionale rilievo storico alle quali ci riporta.
Giuseppe Galasso