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 2011  febbraio 13 Domenica calendario

VITA TRAGICA DI CECILIA KIN PERCHÉ AMÒ L’ITALIA

In un recente editoriale lei ha ricordato il nome della mitica Cecilia Kin, personaggio intellettuale a Mosca quando lei era ambasciatore. Pure noi la frequentavamo: venne anche a Saronno a casa nostra. Era una grande appassionata della cultura italiana. La vita sua e quella della sua famiglia erano state caratterizzate da forti drammi che lei non considerava personali, bensì un dramma collettivo! Ricorda questa sua motivazione?
Luigi Lazzaroni
luigi@lazzaroniandina.it
Caro Lazzaroni, quando arrivai a Mosca nel 1985 sapevo che Cecilia Kin aveva scritto alcuni libri sull’Italia ed era molto amata negli ambienti culturali italiani. Chiesi di farle visita nel suo minuscolo appartamento di via dell’Armata Rossa (una zona in cui sorgevano case che il regime comunista aveva assegnato agli scrittori) e vidi di fronte a me, quando uscii da uno sgangherato ascensore, una donnina alta un metro e sessanta, esile e sottile, con capelli bianchi stretti sulla nuca da uno chignon, una gonna che scendeva sino alle caviglie, un piccolo volto ovale e occhi molto penetranti. Ci incontrammo da allora molte volte a Mosca e in Italia. Da quegli incontri uscì, un po’ alla volta, la storia della sua vita. Si chiamava, prima del matrimonio, Cecilia Rubinshtejn. Era nata nel 1906 a Mogiliov, una cittadina bielorussa collocata all’interno di quel grande recinto geografico in cui vivevano, dopo l’ultima spartizione polacca, quasi tutti gli ebrei dell’impero zarista. Quando la famiglia si trasferì a Ekaterinburg, dopo la rivoluzione d’Ottobre, Cecilia divenne comunista, militò nelle file del Komsomol (l’organizzazione giovanile del partito) e incontrò di lì a poco, non ancora diciottenne, Viktor Kin, giornalista, drammaturgo, romanziere, combattente della guerra civile fra Rossi e Bianchi, reduce da una delicata missione nell’Estremo Oriente dove la Russia sovietica doveva guardarsi le spalle dai giapponesi. Si sposarono, ebbero un figlio e Viktor, negli anni Trenta, fu trasferito, come corrispondente dell’agenzia Tass a Parigi e a Roma. Cecilia imparò bene l’italiano e mi disse di avere visto Mussolini, un giorno, mentre arringava la folla dal balcone di palazzo Venezia. La loro vita fu stroncata nel 1937 quando Viktor cadde nella trappola delle grandi purghe staliniane e fu condannato a dieci anni di lager. Credo che Cecilia non abbia mai saputo se fosse morto di freddo e stenti nelle regioni siberiane dell’arcipelago Gulag, o se fosse stato «giustiziato» all’inizio della prigionia, come accadeva in molti casi. Un anno dopo toccò a lei. Non aveva commesso alcun reato, ma era «moglie» , una categoria anagrafica che bastava, in quegli anni, a condannare una cittadina sovietica. Uscì dal lager nel 1946 soltanto perché il figlio era morto per la patria a diciassette anni combattendo contro i tedeschi. Così era fatto il regime sovietico, capace al tempo stesso di stroncare spietatamente una vita e di commuoversi per il dolore di una madre. Cecilia ricominciò a vivere e trovò nella scrittura una consolazione per gli affetti perduti. I primi successi vennero quando un grande intellettuale sovietico degli anni Sessanta, Aleksandr Tvardovskij, la incoraggiò a scrivere per «Novyj Mir» , una delle migliori riviste del tempo. Lei mi chiede, caro Lazzaroni, perché Cecilia, definisse la storia sovietica, soprattutto durante il periodo staliniano, un «dramma collettivo» . Credo che usasse quelle parole per sfuggire a qualsiasi discussione sulla rivoluzione, sul comunismo, sul regime e le responsabilità dei suoi leader. Erano argomenti delicati che era meglio non sollevare. Ma dietro questa naturale prudenza vi era anche il desiderio di non rinnegare il suo comunismo. Fu questa forse la ragione della sua amicizia per i comunisti italiani. Sperò di trovare nel partito di Gramsci e Berlinguer la dimostrazione che la sua scelta era stata giusta. La vidi dopo la morte del Pci, ma non osai chiederle quali fossero in quel momento i suoi sentimenti.
Sergio Romano