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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

Alfredo Martini: «I miei 90 anni sull’ammiraglia» - È certamente l’uomo migliore che il ciclismo italiano abbia mai espresso: per passione, per acume, per saggez­za, per sensibilità

Alfredo Martini: «I miei 90 anni sull’ammiraglia» - È certamente l’uomo migliore che il ciclismo italiano abbia mai espresso: per passione, per acume, per saggez­za, per sensibilità. Con i suoi (tantissi­mi) pregi e i suoi (pochissimi) difetti, Alfredo Martini taglia a braccia alzate il traguardo dei 90 anni (venerdì, 18 feb­braio): un trionfo prestigioso, dopo una grande corsa personale, tra epo­pea e leggenda. Alla sua invidiabile età, proprio come l’amicone Fiorenzo Ma­gni, è il testimone attento e indiscutibi­le praticamente dell’intera storia a due ruote. Ottimo ciclista, memorabile ct (il più medagliato di tutte le più popola­ri discipline olimpiche), ora è presiden­te onorario della federazione, ma so­prattutto patriarca ascoltato e simbolo venerato. Tanti vecchi vengono amati e rispettati a prescindere, solo per la te­nera età che portano sulle spalle, per quello che erano: Martini viene amato per quello che è tutt’ora, in piena effi­cienza intellettuale, molto più di tanti quarantenni. Basta sentirlo ragionare. Martini, il primo incontro con il ciclismo? «E chi lo scorda. Avevo 7 anni. Fino ad allora, il papà mi portava sul canotto della sua bici: ero il coccolo, terzo e ulti­mo figlio dopo un fratello e una sorella. Un giorno mi portò a casa una bici tutta mia, su misura. Operaio alla Richard Ginori, guadagnava 400 lire al mese: quella bici ne costava da sola 420. Era come se mi avesse regalato una Ferra­ri. Cominciai subito ad usarla per anda­re con gli amici più grandi alle corse dei campioni. Ricordo la Pistoia-Modena, proprio in quel 1928: vidi Binda passa­re con la maglia iridata. Fu magico». Dalla bici non è più sceso. «A Sesto Fiorentino, allora, lavoravano tutti alla Ginori. Ma morivano a 50 anni di silicosi. Mio padre mi disse: tu lì non ci devi venire. Mi fece fare l’apprendi­sta meccanico alla Pignone di Firenze. Ma io già correvo e avevo in testa il cicli­smo. A 16 anni vincevo pure. A 20, final­mente, l’occasione di fare il professio­nista. Tutti parlano di fatica e sofferen­za: io l’ho sempre ritenuta una fortuna. Certo, correre in bicicletta è sofferen­za. Ma trasformare la passione in me­stiere è la più grande fortuna che possa capitare ad un uomo. I miei coetanei si spaccavano la schiena in fabbrica, cer­tamente non soffrivano meno di me». Il seguito della lunga pedalata? «Ho smesso a 37 anni. Era il ’58: non perché stanco, ma per un’ulcera duo­denale. Fino al ’69 ho mandato avanti il negozio di abbigliamento che avevo av­viato strada facendo. Quindi, la chia­mata per salire sull’ammiraglia, con la Ferretti. Sei anni. Infine, nel ’75, l’arri­vo in azzurro...». Questo sì è l’inizio di una favola. «Non ci sono altre parole: 23 anni e 20 medaglie (6 d’oro, 7 d’argento, 7 di bronzo)». Tutto documentato chilometro per chilometro, nome per nome, minuto per minuto sui famosi diari. «Era la mia abitudine. Scrivere tutto. Non volevo lasciarmi dietro niente. Adesso sono il mio patrimonio di ricor­di ». A proposito di memorie: la gior­nata più bella da corridore? «Giro dell’Appennino del ’47,la mia vit­toria migliore. Fuga di 200 chilometri. E poi quel terzo posto nella leggenda­ria Cuneo- Pinerolo,al Giro del ’49.Pri­mo dietro a quei due...». Quei due, Coppi e Bartali, uomi­ni di un altro pianeta: ma lei con chi stava? «Coppi aveva una certa simpatia per me. Con Gino mi allenavo spesso sulle stesse strade. Due campioni veri, due uomini veri. Al Giro del ’52, l’allora ct Binda mi avvicinò e mi disse: devo fare la nazionale per il Tour, vorrei che tu venissi, visto che ti riesce sempre di mettere d’accordo quei due. Fu una delle soddisfazioni più grandi della mia carriera». Aveva già l’anima del paciere: poi,negli anni,ha messo d’accor­do anche Moser e Saronni, Bu­gno e Chiappucci... «Tutti hanno sempre capito che la ma­gli­a azzurra cancella rivalità e differen­ze. Dev’essere così». Andiamo per flash: chi il più gran­de di sempre? «Io dico Binda. Il più completo. In epo­ca moderna, il più completo resta Bu­gno ». L’amico più amico? «Magni». Il giorno più brutto? «Da corridore. Giro di Francia del ’46, allora “Ronde”. Ultima tappa, quattro colli alpini. Ho la febbre. Resto stacca­to subito. Un tormento. Ricordo che ad un certo punto vedo un pastore con le pecore: lo guardo implorando una spinta, quello si gira e corre dietro a una pecora. Avrei voluto morire. Ma so­no quelle le giornate che insegnano di più: dopo, non c’è più nulla che ti spa­venti ». Il Mondiale più bello? «Goodwood ’82, la famosa fucilata di Saronni. Una festa azzurra. Lo abbrac­ciò anche Moser». L’azzurro più azzurro? «Cassani». Se dico Riccò, lei che mi rispon­de? «Non lo conosco. Ha fatto cose talmen­te gravi che davvero non posso dire di conoscerlo: chissà cosa c’è in quel ra­gazzo ». Si coltivano rimpianti, a 90 anni? «Io no. Tolgono serenità. Ho fatto mol­ti errori, ma mi ha sempre sollevato la certezza che in quel momento ho agito al massimo delle mie capacità. Gli erro­ri servono a non sbagliare una seconda volta, mai a coltivare amari rimpianti». Il segreto, di questi 90 anni? «Mai mentirsi. La verità è la cosa più bella, anche quando fa male». La prima cosa che pensa, quando riapre gli occhi alla mattina? «Mia moglie, che non sta bene da tem­po. Il mio primo pensiero è sempre per lei. Per fortuna ho una bella famiglia: ho due figlie e tre nipoti, siamo rimasti sempre vicini». Si coltivano sogni, a 90 anni? «Certo. Il sogno di un giorno ancora».