MArzio Breda, Corriere della Sera 13/02/2011, 13 febbraio 2011
IL TIMORE DEL QUIRINALE: CAMERE E GOVERNO BLOCCATI —
Sulle prime sembra una di quelle precisazioni tipiche del suo carattere puntiglioso e che mettono i cronisti sotto stress. Un breve testo nel quale riclassifica certi aggettivi sulla «temperatura» (gelida, secondo molti giornali) del «serio confronto» con Silvio Berlusconi e smentisce che il premier lo abbia quasi sfidato ventilando «mobilitazioni di piazza» (perché, se così fosse stato, l’avrebbe messo alla porta). Senonché, nelle ultime righe, affiora il vero avvertimento lanciato da Napolitano al premier: siamo sull’orlo di un baratro, è necessario «uno sforzo di contenimento delle attuali tensioni in assenza del quale sarebbe a rischio la continuità della stessa legislatura» . Insomma: o scatta sul serio e subito un disarmo bilanciato, tale da restituire un minimo di civiltà al dibattito pubblico oppure non resterebbe che il voto anticipato. Altro che strategia del pungolo, della persuasione morale, delle carezze diplomatiche per ottenere un abbassamento dei toni. Il presidente della Repubblica sta ormai lanciando al governo l’estremo warning, che è anche il più forte argomento di dissuasione di cui dispone. E, con quell’inciso inserito in coda al comunicato del Quirinale, lo fa sapere pubblicamente. Intendiamoci: non preannuncia né sottintende nulla, Giorgio Napolitano. Non minaccia. Si limita a fotografare la situazione di fatto che si è creata e che ha già rappresentato ad alcuni suoi interlocutori delle scorse settimane: Umberto Bossi, Roberto Maroni, Giulio Tremonti e, per ultimo, Silvio Berlusconi. A tutti ha spiegato che lui cerca, sì, di preservare la stabilità, purché sia una stabilità operosa. E non a caso alla vigilia dello scorso Natale aveva definito «improvvida la prassi italiana degli scioglimenti anticipati, specie in periodi così gravidi di incognite» , rammentando che comunque è «il Parlamento che deve dare, o revocare, la fiducia a un governo» . Ma, gli viene da chiedersi adesso, qualora il premier non riesca a fare il premier perché è divenuto ostaggio della sua veste di imputato, e a causa di ciò il governo non riesca a svolgere un’azione efficace e il Parlamento si paralizzi nella sua attività legislativa, allora si creerebbe una situazione insostenibile. Di fronte alla quale al capo dello Stato non resterebbe che convocare sul Colle i presidenti di Camera e Senato e lo stesso presidente del Consiglio, investendoli della responsabilità di verificare insieme (dato che serve la loro controfirma) se non sia utile chiudere in anticipo una legislatura inconcludente e degenerata in un insanabile conflitto di tutti contro tutti. È uno scenario che ha naturalmente a che fare con gli spazi delle prerogative presidenziali. Un’ipotesi di lavoro che, a considerare gli articoli 88 e 89 della Costituzione, presenta aspetti problematici e sulla quale si dividono gli stessi giuristi: l’analisi forse più lucida, e che ha colpito Napolitano, l’ha sviluppata la costituzionalista di lungo corso Lorenza Carlassare, sul Fatto Quotidiano di venerdì (vedi l’articolo nella pagina qui a fianco). In ogni caso, qualche precedente cui riferirsi esiste e al Quirinale lo stanno studiando. Basta riandare alla Prima Repubblica e a certi anticorpi della politica che oggi sono venuti meno, e ai quali il capo dello Stato si è ritrovato a pensare. Un’epoca, quella, in cui sarebbero stati i partiti a difendersi per primi e da soli da situazioni istituzionalmente scab r o s e e a l l i m i t e dell’ingestibilità come quella attuale. Ecco il senso delle riflessioni che hanno guidato il presidente nel faccia a faccia con Berlusconi. Durante il quale ha spiegato il suo sconcerto per la manifestazione davanti al «Palazzo dell’ingiustizia» di Milano guidata dal sottosegretario Daniela Santanché. Uno sbigottimento che il Cavaliere ha detto di condividere, mostrandosi imbarazzato e fingendo di non saperne nulla. Con il risultato che l’organizzatrice del sit-in antigiudici non è uscita bene dal colloquio. Un confronto, come è stato scritto, monopolizzato a lungo da una febbrile e quasi ossessiva autodifesa del premier. Il quale non si è affatto presentato al Colle «con il viso dell’arme» — come si dice— ma con l’ansia di farsi comprendere e cercare una sponda. Tra uno sfogo e l’altro, ha dovuto dar ragione a Napolitano quando si è sentito obiettare, a proposito delle contestate intercettazioni dilagate su giornali e televisioni, che se non avesse messo su un binario morto (perché lo giudicava «svuotato e dunque inutile» ) il disegno di legge perfezionato dall’onorevole di Futuro e libertà, Giulia Bongiorno, almeno lo scempio mediatico di questi ultimi mesi sarebbe stato evitato. Un’altra obiezione del capo dello Stato cui il Cavaliere ha dovuto abbozzare suo malgrado è quella sulla pretesa di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, per far assegnare al Tribunale dei ministri il processo Ruby. Una possibilità che Napolitano considera percorribile senza traumi pericolosi soltanto se a proporre il ricorso a questo strumento da parte delle assemblee, è un parlamentare o perfino un membro del governo, ma non chi incarna l’istituzione presidenza del Consiglio. Altrimenti è fatale che esploda il conflitto tra due poteri dello Stato. Ben peggio che un muro contro muro. Per fortuna nulla di irregolare può essere finora posto a carico del Parlamento. E per il Quirinale è opportuno che le cose restino così, perché le dispute sulla competenza del giudice naturale non le risolvono le Camere ma— nell’ordine fisiologico — il gip, il tribunale, la Cassazione. Sono questi i nodi che continuano a preoccupare il presidente, in un fine settimana inquinato da nuove polemiche di piccolo (e meno piccolo) cabotaggio. Ieri il suo umore è virato verso il grigio alla lettura di qualche giornale, dove ha visto raccontato tra dettagli inesistenti e arbitrarie virgolette il suo confronto con il premier ed enfatizzata un’inesistente minaccia avventurista di ricorso alla piazza, che lui avrebbe incassato senza battere ciglio. Mentre in altre pagine ha trovato avvilenti le polemiche, che dilagano perfino dentro la maggioranza, sui 150 anni dell’Unità d’Italia. A parte il caso aperto dal «no» pronunciato dal presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder, lo inquieta il duello tra i ministri Calderoli e La Russa, al quale si è aggiunta la sortita liquidatoria (che non ha condiviso) del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino: se non c’è la festa, allora non si faccia proprio nulla. Tesi sbagliata, per Napolitano. Se non altro perché centinaia di manifestazioni, mostre e convegni sono già in cantiere da tempo e fanno in qualche modo festa a sé. Un pasticcio del quale ha parlato con Gianni Letta, venerdì, investendolo con una sorta di ultimatum: in un senso o nell’altro, il governo deve decidere. Gli ha detto: entro pochi giorni dovrò spedire gli inviti ai capi di Stato e di governo dei Paesi amici per il 2 giugno, posso farlo o no? Vogliamo salvare il salvabile e dare al mondo l’immagine di una nazione unita, salda e orgogliosa? Oppure preferiamo dilaniarci in dispute velenose perfino su questo?
Marzio Breda