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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

Ve la do io la Merica - Mio nonno andò alla Merica nel 1902. A bordo del Rio Amazonas, che era stato un piroscafo negriero e che non dimenticò di esserlo nemmeno durante quella traversata del mare Oceano - così lo chiamavano gli emigranti, con un accattivante rispetto, forse per ammansirlo - ché un carico di schiavi portava stipato nella stiva, i «non visibilmente negri» del disprezzo mericano

Ve la do io la Merica - Mio nonno andò alla Merica nel 1902. A bordo del Rio Amazonas, che era stato un piroscafo negriero e che non dimenticò di esserlo nemmeno durante quella traversata del mare Oceano - così lo chiamavano gli emigranti, con un accattivante rispetto, forse per ammansirlo - ché un carico di schiavi portava stipato nella stiva, i «non visibilmente negri» del disprezzo mericano . Oltre un secolo dopo, in America io ci sono andato su un aereo che volava alto sullo stesso mare, diventato oceano Atlantico. Lui fu bordante ammassato in una lurida stanza dove le pulci si portavano a spasso le coperte. Io, un visitatore alla ricerca delle radici, uno che stende le ossa in un albergo sulla 47th W di New York, a pochi passi dalla Broadway - con i marciapiedi affollati da una marea che urla estasiata al primo apparire, dall’uscita dei teatri, di un attore con un minimo di nome - e ad angolo con Times Square sotto l’ombra perenne, tranne che nel chiodo del mezzogiorno, di grattacieli sfavillanti di luci. La riconoscenza verso sacrifici lontani che ci hanno aggiustato la vita, scuotendo un’immutabilità che sembrava solidificata, mi ha guidato i passi dove attraccavano i piroscafi strabordanti di miseria. La metropolitana fino a Battery. Le carrozze sono linde e argentate. Le stazioni, rimesse a nuovo e sorvegliate. Una sorpresa per me che conservo nitide le immagini del film I guerrieri nella notte e che temevo di ritrovarmi indifeso nel regno accidentato dalle bande dei quartieri. A Battery, il traghetto che fa la spola tra Manhattan, la Statua della Libertà ed Ellis Island, l’isola delle lacrime dove sbarcavano gli emigranti di terza classe, fin dalla fine dell’800, dopo venti giorni di mare Oceano. Siamo una folla variopinta, un miscuglio di razze, tutti lì a riannodare le proprie storie. Complicato imbarcarsi: controlli e perquisizioni peggio che per una visita in carcere a un detenuto per 416 bis, molto più che in aeroporto, qui si tocca con mano la paura dell’America dopo l’11 settembre. Dall’isolotto con la statua il colpo d’occhio è mirabile su grattacieli alti da far male al cielo, ché lo infilzano con le punte. Che ne manchino due, lo rivela il confronto tra la grandiosità che si apre alla vista e una foto di prima della tragedia, messa lì ad ammonire il futuro. Ellis Island è di fronte. Ci sbarchiamo. Vi è un unico, grande edificio, ristrutturato di recente, facciate di un color mattone gradevolmente interrotto da blocchi di pietra chiara, grandi vetrate incorniciate da portali. Agli angoli spiccano da terra, e svettano ben oltre il tetto, quattro elementi simili a campanili, che si consumano su cupole a forma di cipolla. Dentro, si compiva un destino che poteva essere atroce: le visite mediche e l’interrogatorio a decidere se i nuovi arrivati fossero adatti all’America. Fallirla era un disastro: agli inizi del secolo scorso il viaggio costava più di cento lire, cioè un’eternità ad accudire pecore di altri, o due anni di zappa sotto un padrone innestato sul selvatico, o due stagioni a disboscare in montagna e a tirare i tronchi con la pariglia di buoi - come toccò all’altro mio nonno, lui rientrato in Italia per non mancare la Grande Guerra, quando sembrò vero, senza che lo fosse, che chi non lo avesse fatto non avrebbe più potuto. Percorro le tappe che toccarono ai miei nonni, a cui certo pesavano i passi: il salone di sotto, con lo spazio recintato dove depositare il bagaglio, l’ampia scala in ferro, il piano superiore per i controlli medici e per l’interrogatorio. Carognosi sanitari spiavano l’affanno degli emigranti appena raggiungevano l’ultimo gradino, decidendo già da lì se possedevano salute per guadagnarsi l’America. Nella parte opposta, la scala della separazione, divisa in tre rampe. Le due laterali significavano America - le porte in fondo indirizzavano o verso il traghetto per Battery, per chi andava a Little Italy, o verso la stazione ferroviaria, per chi si avventurava nell’interno degli States. La rampa centrale portava invece dritti all’inferno, era il sogno che s’infrangeva, restituiti indietro con la stessa nave che li aveva sbarcati, per causa di una risposta sbagliata, della pellagra, di una malattia infettiva solo sospettata, del tracoma che crudi sanitari scoprivano con l’inumano arnese a uncino con cui rivoltavano le palpebre. Sulle pareti, foto di derelitti che avevano fallito l’America, le loro facce sconfitte e rigate di lacrime. Una scorpacciata di commozione. Che completo a Little Italy. Little Italy non è il meglio di Manhattan. Anzi. «Venit’accà», gli imbonitori davanti ai ristoranti, rigidamente con nomi italiani, in Mulberry Street e dintorni. Imbonitori che di tricolore possiedono poche parole ingannevoli: il quartiere ormai ospita il disagio di altri popoli, è compresso dai cinesi, dai vietnamiti. Pochi i locali superstiti, forse solo i due bar Ferrara, dove la sfoglia napoletana pare infornata a Napoli e spedita via email ancora calda di un forno patriottico, dove la ricotta del cannolo siciliano sa dei grumi galleggianti sul siero rigirato dalla forca di legno di un pastore dei Nebrodi. «Italiano?» mi chiedono quei pataccari. Al mio sì, «Berlusconi», «mafia», «maccheroni» storpiano. E giù una risatina, con un torcere di muso lì a chiarire che degli «italiani brava gente» è rimasto ben poco. E che resiste invece indelebile la macchia della mafia, ingiusta e immeritata di fronte all’onore di cui si copre oggi il sangue del sangue di casa nostra. Torno a Times Square. Dove mi accorgo di una piccola ressa attorno a un afroamericano che smanetta rapido con tre carte da poker su un banchetto a treppiedi. «Carta di mezzo vince» dice - almeno credo, ché ho l’inglese un po’ arrugginito - mostrando il re di cuori. Sbarro gli occhi alla sorpresa. Riconosco lo stesso cerchio di compari intenti nella sceneggiata tanto abusata a Napoli, a Porta Portese, nei sottopassi affollati di una stazione della metropolitana - fessi, i nostri, a non aver depositato il brevetto. Uguali i gesti e uguale il gergo. Cambia solo la lingua, e il colore della pelle, più abbronzati questi, per dirla alla Berlusconi. Un paio d’ingenui abboccano. Deprimente che siano arrivati fin qui anche i trucchi di quando la fame era un buon alibi. Risorgo d’orgoglio nella Fifth Avenue: sulle facciate dei negozi più eleganti, dei ristoranti alla moda, dei caffè espresso, il gelido vento dell’oceano svolazza assieme la bandiera italiana e quella americana.