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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

I PADRONI DELL’ISOLA

Cifre. Cifre di barconi approdati sull’Isola. Di uomini e donne sbarcati a Lampedusa. Cifre dei voli di un ponte aereo sempre più insufficiente.
Di magrebini stipati in ogni angolo possibile di ogni edificio pubblico. E dietro le cifre, il dramma dell’emergenza umanitaria. E le chiacchiere, poi. Sì, chiacchiere in libertà. Parole e paroloni. Annunci roboanti che non riescono più a coprire, di fronte a questa migrazione biblica, inadeguatezze e responsabilità che non possono esser scaricate tutte e solo sulla pur assente Europa. E questa, allora, è la cronaca di una giornata che miscela assieme le cifre e il dramma, le chiacchiere e le colpe. E che fotografa, infine, gruppetti di tunisini a passeggio per Lampedusa, padroni di un’Isola che 30 carabinieri e un pugno di poliziotti e finanzieri non riescono più a controllare.

Ieri, dunque, 1200 nuovi arrivi. Sommati ai migranti che erano già a Lampedusa, in fuga dalla Tunisia, portano il totale a quasi 2500. Di questi, 260 sono stati portati via con tre voli che fino all’ultimo momento non sapevano verso dove far rotta, poiché i centri di accoglienza del Sud Italia sono ormai al collasso. Oltre 2000 extracomunitari, dunque, sono ancora qui. E i venti leggeri - e in rotazione - previsti per i prossimi tre giorni, e il mare che si manterrà calmo o appena mosso, lasciano pochissimo spazio all’immaginazione: ne arriveranno ancora. E ne arriveranno molti.

Detto delle cifre, diciamo delle chiacchiere inutili e dei paroloni. I paroloni - per esempio - dell’illustre assessore al Turismo di Lampedusa, Pietro Busetta, docente di Economia all’Università di Palermo, che quattro giorni fa (quattro giorni fa) dichiarava all’Adnkronos: «Non siamo di fronte a numeri preoccupanti. Se pensiamo agli anni precedenti, quando arrivavano quotidianamente centinaia di immigrati, direi che davvero non dobbiamo preoccuparci». L’assessore merita dei complimenti: e qui sull’Isola - se lo si vedesse - qualcuno vorrebbe farglieli di persona.

E dopo i paroloni, le chiacchiere. Quelle del sindaco di Lampedusa, per esempio (pure esemplare nelle prime ore di gestione dell’emergenza) che nella notte tra sabato e domenica, sicurissimo di sé, annunciava: «Il centro di accoglienza non riaprirà perché vogliamo dare ai tunisini un segnale chiaro e forte: e cioè che a Lampedusa non c’è una struttura in grado di accoglierli. Quella che c’era è chiusa, e chiusa resterà». Il centro di accoglienza ha riaperto i battenti - con colpevolissimo ritardo - ieri pomeriggio alle 16,30: e il sindaco era lì a cercare di convincere oltre mille tunisini a entrare in una struttura che al massimo può contenerne 1500.

Questa faccenda del centro, per altro, due parole le meriterebbe. Meriterrebbe cioè una spiegazione la posizione ideologocamente e pregiudizialmente contraria alla sua riapertura sostenuta cocciutamente dal ministro dell’Interno Maroni. Per tre notti di fila, centinaia di immigrati sono stati abbandonati sulle banchine all’aperto o accampati in locali di fortuna. Poi, finalmente, di fronte alla insostenibilità della situazione, la resa. Spiega Simona Moscatelli, osservatrice sull’Isola per conto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: «Noi non sappiamo perché si è atteso tanto. Ma ora che il centro è aperto, siamo felici. Era un dovere, farlo: non era possibile continuare a far dormire degli esseri umani sul molo, nel gelo delle notti di febbraio».

Infine, tre fotoricordo da questo avamposto invaso da disperati. La prima è drammatica, ed è scattata alle dieci del mattino nella zona del porto: un migliaio di migranti sbarcati in nottata marciano incolonnati e, lambendo i pescherecci tirati in secco, vengono condotti al campo di calcio. Non c’è più dove sistemarli. I pochi carabinieri presenti, fidano sulla stanchezza dei tunisini per evitare incidenti e fughe che non potrebbero contenere. L’immagine, drammatica, fa tornare alla mente quella famosa e agghiacciante dello stadio di Bari, stipato come un lager di profughi albanesi.

La seconda foto immortala una decina di pescherecci che a mezzogiorno in punto, a sirene spiegate, fanno una sorta di girotondo nelle acque antistanti il porto. I pescatori sono in sciopero da giorni contro il caro-gasolio (qui costa quasi il doppio che nel resto del Paese) e innalzano striscioni sulle barche. «Aiutateci come fate con i clandestini», «Giovedì vogliamo risposte o si salvi chi può». Fanno sul serio, stavolta. Anni fa bloccarono l’aeroporto rovesciando sull’unica pista quintali di pesce: lo rifacessero ora, sarebbe un guaio davvero grosso.

Infine, l’ultima foto di questa drammatrica domenica d’inverno. Quattro del pomeriggio, tavolino sulla terrazza del bar di don Pino, il più frequentato dell’isola. Tre tunisini sono seduti al sole come fossero turisti. Si guardano intorno, non possono ordinar nulla perché non hanno soldi, ma sembrano felici. Su via Roma, il corso principale dell’isola, altri gruppetti passeggiano e salutano gli uomini e le donne che li osservano dai balconi. Guardano le vetrine, sciamano per le viuzze laterali. Nessuno li ferma. Anzi, nessuno può fermarli, vista l’esiguità delle forze dell’ordine messe in campo. Per alcune ore sono padroni dell’Isola: ma padroni buoni, per fortuna. Al centro di un gruppetto, c’è un immigrato su una sedia a rotelle. È scappato anche lui, in quelle condizioni, dalla violenza delle bande che squassano la Tunisia. L’immagine stringe il cuore, mentre il sole cala giusto al centro del canale di Sicilia.