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 2011  febbraio 13 Domenica calendario

Il fuoco amico della vergogna - Né Woody Allen né Marcel Proust. Non solo perché si urta quando sente formulare il paragone - «la critica peggiore che possono farmi è di essere uno scrittore derivativo» - ma anche perché Alessandro Piperno, classe 1972, romano, ebreo da parte di padre e cattolico da parte di madre, è soprattutto uno scrittore molto italiano

Il fuoco amico della vergogna - Né Woody Allen né Marcel Proust. Non solo perché si urta quando sente formulare il paragone - «la critica peggiore che possono farmi è di essere uno scrittore derivativo» - ma anche perché Alessandro Piperno, classe 1972, romano, ebreo da parte di padre e cattolico da parte di madre, è soprattutto uno scrittore molto italiano. Nel senso che intercetta e racconta con formidabile precisione il carattere profondo della borghesia del nostro Paese, senza sconti, senza pudori, ma al fondo con indulgenza. Il suo ultimo libro, Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi (Mondadori), è la storia di uno scandalo sessuale che travolge un’esistenza invidiabile. Risvegliando nel lettore un interrogativo martellante: e se succedesse a me? Alessandro Piperno, il suo secondo libro era attesissimo. Dopo il grande successo del primo, Con le peggiori intenzioni , i suoi critici la aspettavano implacabili alla seconda prova. Com’è andata? «Le vendite sono state decisamente più fiacche. Per il resto tutto bene». Il successo, alla fine, è così importante? «Direi di sì. Non sarà mica un caso se tutti lo perseguiamo con tanta tenacia. In fondo si tratta del solo parametro aritmetico di cui disponiamo per misurare la nostra capacità di incidere sul prossimo. Se un’opera ha successo, anche se non ha alcun valore estetico, significa che è riuscita a intercettare qualcosa là fuori. Detto questo però mi ostino a disprezzare gli scrittori che cercano spudoratamente il consenso dei lettori. Demagogia, semplificazione, sentimentalismo: ecco i veri nemici della letteratura». Entrambi i suoi libri si propongono, in fondo, come una grande fenomenologia della vergogna. Cosa c’è nella vergogna che la seduce tanto, o la ossessiona? «È un sentimento con cui mi sono precocemente impratichito. E guarda caso è il più universale e atavico degli impulsi umani. Ha presente quando Adamo ed Eva s’accorgono improvvisamente di essere nudi? Be’, da quei tempi remoti, a dispetto delle apparenze, i costumi non mi sembrano così evoluti. Forse la ragione per cui amo i vestiti è che sono atterrito dalla nudità». Vergogna e persecuzione. Viene in mente il nostro premier, che sembra non si vergogni, e grida alla persecuzione. Il nesso è davvero così narcisismo. Conosce qualcosa profondo? di più pericoloso di un potente «Temo di non essere d’accor- in imbarazzo?». do con almeno una delle sue Lei appartiene alla catego- premesse. Credo che il pre- ria degli scrittori-lettori, mier in questo momento sia quelli in cui il riferimento pieno di vergogna. E mi chiedo letterario è diventato se non sia questo il problema. un’abitudine. Così a un cer- Un colpo fatale al suo ciclopico to punto ha paragonato il protagonista del suo libro, Leo Pontecorvo, a Gregor Samsa. Sicuro che sia stata una buona idea? «Credo sia stato Borges a dire che non c’è un grande scrittore che non sia prima di tutto un grande lettore. L’ostentata naïveté di certi miei colleghi è piuttosto patetica. Se c’è una cosa che detesto è una scrittura pedestre e inconsapevole». È difficile non affezionarsi a Leo Pontecorvo, e non partecipare alla spirale di emozioni che lo trascina nello scantinato travolto dalla vergogna, dallo strapotere del Super-io. Non è la stessa cosa per i suoi personaggi femminili, la moglie Rachel e la baby-seduttrice Camilla, l’una severa al punto da non rivolgere più la parola al marito caduto in disgrazia, l’altra crudele e inafferrabile come i bambini degli psycho-thriller. Le donne sono davvero così tremende? «Le donne terribili dei miei romanzi denunciano tutt’al più il rapporto difficile che il loro complicato creatore intrattiene con esse. Nient’altro. I miei romanzi non hanno la pretesa, tanto meno l’ambizione, di dare giudizi sulla condizione femminile, per la quale non nutro alcun interesse. D’altro canto affrontare il problema “in generale”, come fanno certi psicologi da talk show o certe risentite suffragette pronte a invadere le piazze italiane per manifestare il loro “essere donna in modo alternativo”, mi pare di una frivolezza comica. Tutto questo interrogarsi, tutto questo spezzare il capello in quattro mi fanno venire in mente quegli ebrei che stanno sempre lì a chiedersi: “Che significa essere ebrei oggi?”. Si tratta delle tipiche domande stupide che sembrano intelligenti». Il suo lato ebraico è molto sviluppato, spesso siede vicino ad autori come Yehoshua, Grossman, Oz. Ma c’è qualcosa che non la convince nella politica dello Stato di Israele? «Non sempre un problema contiene in sé una soluzione. Io sono pessimista su Israele. E non certo per la politica talvolta cieca dei suoi governanti, ma perché mi pare che tutto congiuri per la sua futura distruzione. Il fatto che uno storico equanime come Benny Morris - spesso accusato dalla destra israeliana di essere un disfattista e un collaborazionista degli arabi - abbia negli ultimi tempi maturato un analogo fatalismo conforta la mia idea e mi rattrista profondamente. Non c’è pace per gli ebrei». Sua madre è cattolica. Cosa pensa di suo figlio? «Bisognerà che prima o poi io trovi il coraggio di chiederglielo».