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 2011  febbraio 12 Sabato calendario

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL CUCINARE

-Considerando non la mia “incoerenza del pensiero” ma l’incoerenza schizofrenica di questo Paese, mi interrogo perché ai vertici delle classifiche di vendita di tutta la produzione letteraria italiana non ci siano poeti o romanzieri, storici dell’arte o saggi di ogni genere, ma nemmeno l’Artusi o il Carnacina-Veronelli, questo mi entusiasmerebbe. Solo a Natale, per fortuna, riappare nelle classifiche il tramandato da generazioni e generazioni Talismano della felicità. Troviamo invece sulla stampa nazionale ormai da tantissimo tempo, all’invidiabile vetta delle classifiche, dei ricettari sintesi di programmi televisivi che argomentano intorno a una profusione di ricette descritte in maniera tranquillizzante e apparentemente abbordabili da chiunque. Mai e poi mai, uno dei 700 titoli che tutti gli anni escono sulle cucine regionali, provinciali, comunali che, come trattati di antropologia, fanno ricerca di nicchie gastronomiche e racconto territoriale, spesso e volentieri di una bellezza che cura il particolare. Le statistiche ci raccontano che quest’ultimi, in media, non vendono più di 400 copie per titolo.
MI INTERROGO e considero la mia “incoerenza del pensiero” nel confessarvi uno degli stati più reconditi del mio essere. In superficie, anche solo per abbigliamento, la mia professione è senza alcun dubbio quella di cuoco. Ma in realtà, nella solitudine di una cucina o davanti a un notturno frigorifero frequentato per improvvise e tardive fami, io sono, sono sempre stato e sempre sarò solamente un grandissimo mangiatore. Ed è in questa veste che vi dirò quel che vi voglio dire. Anni fa, a un invidiosissimo collega che riconoscevo, per evidente magrezza, piccolo e raro mangiatore , dopo che mi aveva accusato di fare in cucina soltanto quello che sapevo e mi piaceva fare, risposi che quello di cui lui mi accusava era di fatto il suo problema: lui continuava e insisteva a fare quello che non sapeva e non gli piaceva fare. Ad esempio non gli era ben chiaro cosa fosse un soffritto, nascondendosi in improbabili dichiarazioni per inconsistenti e presupponenti leggerezze del suo cucinare. Non ne conosceva le mille gradazioni di colore possibili, ideali per sorreggere un minestrone estivo ben diverso da un minestrone invernale. Soffritto che nel suo raggiungere il color rame, senza mai toccare il bronzo, si predispone ad accogliere un ragù come quando, toccando in fase iniziale il “punto color oro”, risolve il necessario sostegno per un garbatissimo passato di bietoline. Lo si vedeva non correre fra mercati e contadini, ma arrabattarsi come un prestigiatore di terz’ordine fra presupposte tecniche moderne, fra sifoni emulsionanti, non più gelati, ma parmigiani torturati, come tutto quel che gli capitava fra le mani. Il sottovuoto era il suo credo, più che per banale tecnica di cottura, per dare certezza al mantenimento di una materia prima mai amata e mai considerata, riposta sempre e in ogni caso in frigoriferi conservanti, pronti ad attendere comodamente e pigramente l’incauto cliente richiedente. Mai e poi mai l’ho visto provar piacere nel mangiare. D’altronde, da quelle plastiche bollite non usciva mai un profumo o un aroma. E da quelle pentole sobbollenti con vapori nullatenenti, io scappavo, scappo e scapperò sempre. Scapperò da questi servitori di una conformistica ignorante borghesia, che si accontenta di questi “cuochi d’artificio” che in un baleno ti illuminano tavole ben apparecchiate per quelle due ore di presupposta ricchezza, lontane, per conto mio, dalla gentilezza e della generosità dell’accoglienza che, se ben apparecchia, evita le ridondanze e bada molto alle sostanze. In vita mia sono entrato in trattorie con girarrosti dove le patate arrostite accoglievano profumi gocciolanti dalle umidità profumate da salvie e rosmarini, trovando così agli che sovrastavano potenti ed emozionanti baccalà, piccole e anziane
donne che si ergevano come vestali dalle loro cucine smuovendo tutte le endorfine con le nostre salivazioni, che altro non sono che acquoline in bocca per pensieri felici di una quotidiana qualità della vita, dove un pane unto si fa cemento e acciaio di quel che trovi in questo mondo e di quel che ci lascerai.
NON VI POSSO nascondere che adoro andare a mangiare negli altrui ristoranti e scopro sempre e comunque qualcosa che mi emoziona. So leggere dentro i menu che mi svelano a prima vista, come un musicista davanti a uno spartito, i loro segreti e i loro perché. Davanti a un menu vi so raccontare dove fanno o non fanno la spesa, e a quale punto del loro bilancio apparirà la voce olio extra-vergine d’oliva o parmigiano. Vi so raccontare, ad esempio, se un ristoratore è complice o no del più grave crimine culturale del dopoguerra, a mio giudizio, commesso in Italia: la scomparsa del 90% dei nostri contorni dai menu delle nostre tavole. E gli intellettuali non sorridano con il riso degli stolti, sdegnati a questa mia affermazione che – se questo Paese cede la sapienza e la conoscenza ortofrutticola che ci fa Paese unico e diverso dal resto del mondo con i suoi territoriali carciofi, con i suoi basilici, con i suoi cavoli, con le sue cipolle e i suoi agli – scomparirebbe l’humus di tutte le stratificazioni culturali. Dove andrebbe il cinema senza le tavole imbandite di Olmi e l’abbacchiodiAldoFabrizi ? O la scultura senza il Bacco di Michelangelo che ha indicato la strada alla pittura caravaggesca con La Canestra di Frutta dell’Ambrosiana di Milano che tutti noi ricordiamo sulle vecchie 100.000 lire? E potrei continuare con il teatro e i soffritti di cipolla di Eduardo , finendo e non finendo, sempre che gli intellettuali me lo concedano, col pane imburrato di sotto e di sopra dalla collodiana Fata Turchina, che andrebbe laicamente santificata come rappresentante della generosa responsabilità femminile che con l’intelligenza emotiva delle donne le tiene, quasi tutte, lontane dalla disabilità affettiva di cui noi uomini spesso siamo, in una percentuale invertita,complicievittimedinoi stessi.
SÌ, IO VORREI invitare la signora Parodi a cucinare il suo eccessivamente rapido spaghetto alle vongole per poi rifletterci su e introdurla alla cucina zen o alla cucina della parte livornese della mia famiglia. Vorrei invitare il giovane e simpatico Simone Rugiati col suo povero cappuccino di polpo spellato e piangendo chiedergli: perché? O Gioacchino Bonsignore, perché mi confessi, per difendere la mia competenza territoriale, chi gli ha dato quella “stramba” ricetta di pappa al pomodoro con l’aglio in camicia e sobbollita in un improbabilissimo brodo di carne. Finirei con Antonella Clerici, proponendole un rieducativo corso slow food per vedere se con il loro terapeutico intervento la convincono a tralasciare la panna a lunga conservazione e per portarla a realizzare che il tempo per fare un soffritto non congelato è tempo regalato alla riflessione, all’introspezione, sostanzialmente regalato a se stessi. A non usare dadi ed estratti di pura chimica per i suoi brodi. Io da parte mia le regalerei alcune sapienze alchemiche, che a loro volta mi sono state regalate da sapienti donne, per farne di veri (brodi). Giuro che come unica affettuosa punizione, dopo averli tutti invitati, gli farei mangiare l’unico peccato non di gola di quel bravo pasticcere che è Luca Montersino, il suo semifreddo Paperella che troverete a pagina 214 della sua Scuola di Pasticceria, che sta ai Saint Honoré, ai meringati, alle cassate, ai cannoli, ai babà come il Gabibbo al Pescatore di Vincenzo Gemito che fu portato nel 1877 al Salone di Parigi e che noi qui a Firenze abbiamo al Bargello in una delle sue migliori fusioni. Tanto per ricordarci che un tempo eravamo esportatori di cultura, delle tante possibili culture che ci appartenevano e che senza alcun pessimistico dubbio ci appartengono ancora.