Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  febbraio 12 Sabato calendario

I compagni yankee nel paradiso (artificiale) dell’Urss - All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso negli Stati Uniti,terra d’immi­grazione se mai ce ne fu una, avvenne un fenomeno inverso

I compagni yankee nel paradiso (artificiale) dell’Urss - All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso negli Stati Uniti,terra d’immi­grazione se mai ce ne fu una, avvenne un fenomeno inverso. Fu registra­to un flusso d’emigrazione verso l’Unione Sovietica. Migliaia di americani, nati e cresciuti nel più prospero Paese del mondo consi­derato uno dei baluardi della de­mocrazia, vollero cercare fortu­na sotto Stalin. Furono numero­se le voci anche autorevoli di chi vedeva con favore quel fenome­no. Walter Duranty, famoso invia­to del New York Times , pronosti­cò che a un certo punto «l’immi­grazione verso l’Unione Sovieti­ca comincerà a rivaleggiare con la marea che si riversò in Ameri­ca. All’attuale tasso di crescita quel giorno non è tanto lontano». La Amtorg, agenzia commercia­le sovietica con sede a New York, aveva pubblicato annunci per l’arruolamento di personale spe­cializzato. Solo nei primi otto me­si del 1931 le arrivarono 100mila domande, da barbieri, idraulici, imbianchini, cuochi, benzinai, elettricisti, carpentieri, aviatori, ingegneri, dentisti e un impresa­rio di pompe funebri. Tre le motivazioni principali di questa tendenza alla fuga. La pri­ma era la disoccupazione imper­versante. Il capitalismo Usa, che aveva registrato straordinari trionfi, pareva al collasso, la fru­sta della povertà infieriva. Per questo sui moli del porto di New York «crocchi di disoccupati si passavano le pagine del New York Herald Tribune che pubbli­cavano le date di partenza dei mercantili diretti a Leningrado e Odessa». Seconda motivazione: il moto di ribellione, e di deside­rio d’una vita nuova e diversa che la grande depressione aveva inge­nerato anche in molti giovani. Terza motivazione: la rappresen­tazione ingannevole e favolistica della realtà sovietica che la propa­ganda dell’Urss, con la fervida col­laborazione della stampa ameri­cana, dava ai lettori. In un Paese che era stato ottimista e che in gran parte non lo era più, quella descrizione d’una realtà remota dove il sogno e le promesse di re­denzione sociale si avveravano aveva una forte presa su molte im­maginazioni. La storia di questa illusione - e della tragedia che ne derivò - è molto ben raccontata dal saggista inglese d’origine gre­ca Tim Tsouliadis in I dimenticati (Longanesi, pagg. 510, euro 30). Chi conosce appena appena le vicende del terrore staliniano im­magina facilmente il seguito di questa vicenda. Essa ricorda per alcuni aspetti quella dei comuni­sti italiani che, volendo sottrarsi al fascismo e alla repressione del­la sua polizia, si rifugiarono nel­­l’Urss, la loro patria ideologica. Tutti finirono presto o tardi nei tentacoli del gulag, molti furono fucilati come spie e traditori dopo aver confessato agli inquirenti e torturatori della polizia segreta immaginari complotti. Analoga sorte toccò agli americani, alcuni dei quali avevano avuto oltretut­to la pessima idea di rinunciare al­la cittadinanza Usa e di adottare quella sovietica, il che li rese an­cor­più indifesi di fronte alle perse­cuzioni e ai processi farsa del regi­me. Dopo un idillio iniziale - sor­sero perfino squadre di baseball­venne l’incubo. Per la paranoia delirante di Baffone tutti gli stra­nieri erano diventati nemici. Biso­gnava eliminarli. Le fasi di questa calata verso l’inferno sono descritte con effica­cia da Tsouliadis, ma non sor­prendono chi abbia letto qualche altro saggio sull’argomento. Sor­prendente semmai è la documen­tazione delle cecità, delle condi­scendenze, delle viltà di cui diede­ro prova, di fronte agli appelli stra­zianti dei loro concittadini, il go­verno di Washington e l’amba­sciata Usa a Mosca. Può darsi che Tsouliadis abbia un po’ calcato la mano contrapponendo la credu­lit­à stupidotta d’alcuni importan­ti personaggi americani al reali­smo consapevole di Winston Churchill e d’altri inglesi.Ma di si­curo né il presidente Roosevelt né i suoi più stretti collaboratori escono bene da questa storiaccia terrificante. Joseph Davies, un avvocato progressista fedelissimo di Roose­velt che aveva sposato un’eredi­tiera, divenne ambasciatore a Mosca nel gennaio del ’37.Appe­na due giorni dopo il suo arrivo ebbe il privilegio di assistere a uno dei processi politici che Sta­lin inscenava per distruggere via via vere o presunte dissidenze. La presenza dell’ambasciatore ame­ricano- altri diplomatici avevano declinato l’invito - conferiva una parvenza d’autenticità all’orren­da recita. In un rapporto a Roose­velt, Davies affermò che «le con­fessioni avevano il marchio della credibilità». Il suo autista, Charlie Ciliberti, era avvicinato per stra­da da americani vicini alla dispe­razione e «troppo spaventati, o troppo bene informati per arri­schiarsi a entrare in ambasciata» che chiedevano aiuto, e ne parla­va all’ambasciatore che tuttavia mostrava una strana insensibili­tà per la sorte dei propri connazio­nali. Fu invece emozionatissimo quando, nel giugno del ’38, con­g­edandosi dal ministro degli este­ri Litvinov, si trovò di fronte a Sta­lin. Al ritorno in ufficio Davies dis­se a un collaboratore: «L’ho visto, ho finalmente fatto una chiac­chierata con lui: è veramente una persona distinta,onesta,un gran­d’uomo ». Davies pubblicò poi un libro di ricordi, Missione a Mosca , dai suoi subordinati ribattezzato «sottomissione a Mosca» che fu un best seller tradotto in tredici P­a­esi e che descrisse Stalin come un leader equanime e affidabile. Per dabbenaggine il vicepresi­dente Henry Wallace - che fu so­stituito da Truman nel quarto mandato rooseveltiano e perciò perse l’opportunità di diventare presidente - rivaleggiò con Da­vies. Durante la tappa in Siberia d’una visita nell’Urss (l’apparato sovietico era bravissimo nell’alle­stir­e scenografie false come acca­deva per i villaggi del favorito Po­t­iomkin al tempo della grande Ca­terina) pronunciò senza arrossi­re queste frasi: «La Siberia per gli americani ha sempre significato dolori e sofferenze indicibili, pri­gionieri incatenati ed esuli. Per molte generazioni l’idea della Si­beria è rimasta tale senza partico­lari modifiche. Poi nel corso di questi ultimi quindici anni tutto è cambiato come per magia. Oggi la Siberia è uno dei più grandi spa­zi del mondo ancora disponibili all’insediamento di pionieri». Nulla era cambiato,altro che«tut­to è cambiato », il sistema schiavi­stico staliniano portava in Sibe­ria, a lavorare e a morire, centina­ia di migliaia di poveri russi, e an­che un certo numero di poveri americani. Quando Averell Harriman, ulti­mo di una serie di facoltosi amba­sciatori americani, si insediò a Mosca «non aveva intenzione di impegnarsi durante la guerra (l’Urss era dientsta alleata delle democrazie) in un confronto sul­la sorte di qualche migliaio di suoi compatrioti. Poteva a mala­pena salvare i pochi americani che lavoravano per lui nell’amba­sciata ». E tacque. Del resto il can­tante Paul Robeson, idolatrato nell’Urss per i suoi pronuncia­menti filocomunisti, non mosse mai un dito, in pubblico, per gli americani perseguitati. Uno dei tanti vip statunitensi che preferi­rono omaggiare Stalin che schie­rarsi dalla parte delle sue vittime.