Giorgio Dell’Arti, La Stampa 12/1/2011, PAGINA 86, 12 gennaio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 73 - LA BELLEZZA DELL’INFELICITA’
È finita la lista delle infelicità lombardo-venete?
Le Cinque giornate e i moti mazziniani degli anni Cinquanta furono opera soprattutto della popolazione artigiana, una classe in crisi dopo la fine delle corporazioni settecentesche e la concorrenza estera. Era gente scappata dalla campagna, che campava come poteva e si offriva per poco prezzo a richiesta. Milano aveva 121.600 abitanti nel 1816 e 184.444 nel 1857. Questo aumento della popolazione era soprattutto dovuto - come a Torino, come a Roma - a queste fughe in città, qualche volta nelle sole stagioni di fermo dell’agricoltura, sempre più spesso in via definitiva. Abbiamo già raccontato il fenomeno in Piemonte e nello Stato pontificio. Le ragioni dell’inurbamento nella parte italiana del Regno sono simili. Una rilevazione ufficiale del 1814 attribuiva a Venezia, che aveva centomila abitanti, 40 mila viventi di carità e pubblica assistenza. Mario Romani valuta i viventi alla giornata di Milano in «poco meno della metà dei cittadini adulti». Mangiavano pane raffermo, polenta, vino scadente e carne avariata (di cui c’era un gran commercio clandestino). Abitavano gli stessi tuguri che abbiamo conosciuto a Torino. Identici i fenomeni collaterali: dissesti familiari (Czoernig: «In Italia molti uomini che per dissensi matrimoniali vengono convocati dalla polizia non conoscono neppure il cognome della propria moglie»), moltiplicazione dei figli illegittimi, frenesia per il gioco del lotto, accattonaggio, alcolismo. Meriggi: «Il pauperismo fu il dato unificante della condizione popolare urbana nel Lombardo-Veneto». Potremmo integrare: in tutti gli Stati italiani.
- Nel ‘39 Vienna decise che sarebbero state messe in vendita le terre libere, quelle dove chiunque poteva andare a far legna o condurre al pascolo il bestiame. Era un colpo alla piccola proprietà contadina, presente soprattutto nelle terre difficili della collina e della montagna (e specialmente in Veneto), che diede luogo a una vasta resistenza, fatta di «sommosse, ribellioni e sangue» (Meriggi) e le «invasioni dei campi da parte della popolazione che, in massa, in sprezzo a qualsiasi protesta, forte del numero, si serve di quanto abbisogna, e spezza rami, svelle alberi, prende l’uva, falcia l’erba dei prati o vi porta al pascolo le proprie pecore» (Derosas). Aggiunga i terribili inverni del triennio 1845-1847. La rivolta si indirizzava in particolare contro il nemico visibile, cioè i grandi proprietari che s’andavano lentamente impossessando delle terre libere e, durante le carestie, arricchivano nascondendo i grani e vendendoli quando e dove si pagavano meglio. Durante la Prima guerra d’indipendenza, capitò molte volte che l’invasore piemontese in ritirata venisse accolto al grido «Viva Radetzky».
- Gli otto anni di servizio militare erano poi sopportati soprattutto dalle campagne. Il giovane contadino, «partito dalla soglia domestica ottimo lavoratore, vi ritornava inerte; uscito obbediente, vi rientrava inquieto». L’esercito lo aveva vestito «di una buona divisa» «al posto di quelle ruvide mezzelane che li coprivano il verno», aveva mangiato «pane migliore, e carni quasi mai cibate in addietro» (Bernardello) e aveva fiutato la «dimensione raffinata e ricercata del vivere civile». Meriggi: «A partire dal 1919 le città lombardo-venete si infittirono così di colpo di un popolo contadino che vestiva i panni del soldato, e che tornando al luogo d’origine avvertiva come intollerabile una vita di nuovo scandita solo dal lento avvicendarsi delle stagioni e dalla brutalità di una fatica avvilente».
A sentir lei, fu dunque tutta una questione materiale. Ognuno - ricco o povero - si muoveva in nome del proprio tornaconto. E il tricolore, il patriottismo, Fratelli d’Italia? Tutto questo non contava niente ?
Il malcontento si serve dell’attrezzatura disponibile in quel momento. La cacciata dello straniero, o il mito dell’Italia, erano abiti meravigliosamente adatti a rivestire il corpo degli interessi reali. La propaganda… le emozioni… Nel ‘32 Le mie prigioni di Pellico, con il racconto dimesso della prigionia nello Spielberg, erano davvero costate agli austriaci più di una battaglia perduta. Dal ‘42, alla Scala, non si faceva che replicare il Nabucco : gli ebrei che rimpiangono la patria sì bella e perduta non erano gli italiani dominati dallo straniero? I funerali di Federico Confalonieri in San Fedele s’erano trasformati in una potente, silenziosa manifestazione politica. L’idea nazionale era la risposta semplice a problemi molto complicati. La risposta più semplice all’Infelicità, nuova dea di un’Occidente già decadente nello spirito. E infatti il romanticismo pompava a iosa infelicità, vera o presunta, nei cuori e nei cervelli di tutti. E poi c’era questa bellezza di un nemico facile e antipatico: gli austriaci. Ecco il successo dei tre bestseller del momento, cioè Il Primato , Le speranze eI casi di Romagna , cui s’erano aggiunti, tra gli altri, il saggio di Correnti e tutti gli opuscoli con cui Massimo da Roma rintronava le teste degli italiani.