Rosanna Roccia, relazione al convegno "Cavour e il federalismo" 1/3/2011, 1 marzo 2011
Preparato nella massima segretezza da emissari fidatissimi, il noto incontro di Cavour con Napoleone III a Plombières, ebbe luogo il 21 luglio 1858
Preparato nella massima segretezza da emissari fidatissimi, il noto incontro di Cavour con Napoleone III a Plombières, ebbe luogo il 21 luglio 1858. L’incontro – per i francesi l’ entrevue - fu la tappa miliare di un processo di avvicinamento alla Francia iniziato con l’adesione del Regno di Sardegna alla guerra di Crimea (1855), guerra impopolare e costosa, che consacrò tuttavia alla Storia la modesta vittoria piemontese alla Cernaia, qual riscatto dell’onta subita a Custoza e a Novara (com’ebbe a ricordare De Amicis nel libro Cuore), e che soprattutto conquistò al Regno sabaudo (e all’Italia) una posizione inedita nello scacchiere internazionale. Di quel processo di avvicinamento la fitta cronologia cavouriana registra almeno tre momenti imprescindibili, accomunati dalla medesima data topica: Parigi. Il primo è l’approccio «à brûle-pourpoint» (a bruciapelo) dell’Imperatore francese, che l’8 dicembre 1855, alle Tuileries, nel congedare Cavour, lo invita a fargli conoscere in via confidenziale «ce que vous croyez que je puisse faire pour le Piémont et l’Italie» (ciò che crediate io possa fare per il Piemonte e per l’Italia). Il secondo momento è la seduta suppletiva del Congresso per la pace in Oriente, espressamente dedicata l’8 aprile 1856 alla “questione italiana”, durante la quale alle grandi potenze riunite sono posti interrogativi urgenti in merito alle gravi patologie che affliggono la penisola, capaci di compromettere la stabilità dell’Europa (Ep. Ratt. p. 256): in specie l’ingerenza austriaca nelle regioni centrali e il mal governo borbonico nel Mezzogiorno. Il terzo momento infine è l’attentato di Felice Orsini alla coppia imperiale francese, il 14 gennaio 1858: evento drammatico, che anziché mandare in frantumi le fragili attese cavouriane, riesce ad imprimere una accelerazione sia all’attività diplomatica ufficiale, sia soprattutto alle trattative informali segrete tra Torino e Parigi, mirate a fissare i cardini di una intesa, che sarà messa a fuoco durante il rendez-vous del 21 luglio nella cittadina termale dei Vosgi. I primi di maggio le «propositions», definite consenziente l’Imperatore, risultarono articolate in tre punti: «mariage, guerre à l’Autriche et Royaume de Haute Italie». Su queste basi, prima della partenza, Cavour redasse una sorta di questionario suddiviso in paragrafi concernenti sia i temi da discutere, sia le obiezioni imperiali prevedibili. L’11 luglio lasciò Torino munito del prezioso promemoria e di una sorta di commendatizia del sovrano, il quale avvertiva Napoleone III: «Le comte de Cavour... jouit de toute ma confiance, car il a été pour moi un zelé serviteur et un fidèle ami». Tutto ciò che Cavour dirà all’Imperatore non sarà dunque «que la pure expression» dei sentimenti e del pensiero del Re (Lett. V.E. II, I, 526). Meta ufficiale del viaggio era la Svizzera, ove lo statista avrebbe trascorso una vacanza ristoratrice presso i parenti ginevrini: questo il leit-motiv dei messaggi diramati in quei giorni ai vari collaboratori e ai familiari. Con qualche collega di governo, senza scoprire le carte, Cavour ritenne invece di aprirsi di più: «Le dirò in confidenza che profitto della vicinanza di Plombières per fare una visita all’Imperatore», scrisse al ministro delle Finanze Lanza da Ginevra il 14 luglio 1858, aggiungendo: «Parmi utile ch’io veda di penetrare i veri suoi progetti. Non so se vi riuscirò, ma almeno farò il possibile per sapere se nel suo cervello stiano rinchiuse la pace o la guerra». Giunto con il treno imperiale a Plombières nei primi giorni del mese di luglio (“L’Ill.”, 10/7), Napoleone III attendeva Cavour per il colloquio regolato dagli accordi. Consapevole della delicatezza della missione, lo statista il 14 luglio confidò all’amico Alfonso La Marmora, unico collega di governo al corrente della vicenda: «Il dramma s’approssima della soluzione. Prego il cielo d’ispirarmi onde non faccia minchionerie in questo supremo momento. Ad onta della mia petulanza e dell’ordinaria mia fiducia in me medesimo, non sono senza gravi inquietudini» (Ep 58, n. 365). Lasciata Ginevra il 18 luglio, Cavour arrivò a Plombières la sera del 20. Alle 11 del giorno seguente fu ricevuto dall’Imperatore. Il celebre incontro si svolse in due tempi, dalle 11 alle 15 nell’intimità del «cabinet» imperiale, e dalle 16 fin quasi alle 20 nel corso di una solitaria passeggiata in phaéton tra i magnifici boschi dei Vosgi: «au milieu des vallons et des forêts qui font des Vosges une de parties les plus pittoresque de la France». Del colloquio durato complessivamente «poco meno di otto ore», Cavour a tarda sera, dopo aver comunicato al Re, con un dispaccio in cifra, l’esito felice dell’incontro, stilò un promemoria (Ep. 58, n. 378) Rinfrancato, il giorno seguente prese la via di Strasburgo non senza comunicare ai quattro venti il «petit coup de tête» che l’aveva condotto a Plombières a rendere omaggio al sovrano francese. Il 24 luglio da Baden-Baden , ove incontrò «une foule de Princes, de Rois et de diplomates» con i quali instaurò fruttuosi colloqui, si rifugiò in un albergo per stilare una ampia ed esatta relazione al Re da inviare a Torino attraverso la legazione di Berna. Sigillato il plico, composto da «40 pagine in circa» vergate di getto, avvertì l’amico e collega La Marmora: «Ho scritto con calore al Re, pregandolo a non porre a cimento la più bella impresa dei tempi moderni per alcuni scrupoli di rancida aristocrazia. Ti prego, ove ti consultasse, di giungere la tua voce alla mia». Le resistenze regali non avrebbero potuto vertere che su un punto: «le mariage». Le nozze tra la quindicenne e devota principessa Clotilde, primogenita del Re, e l’anticlericale principe Napoleone, maturo cugino dell’Imperatore, erano il nodo cruciale di una alleanza possibile. Cavour, relatore puntuale della memorabile giornata, consegnò, com’ era giusto che fosse, le sue argomentazioni in proposito alla seconda parte della lunga missiva. Nelle pagine iniziali egli affrontò i due punti focali discussi la mattina a tavolino: vale a dire la guerra contro l’Austria e il conseguente assetto geopolitico della penisola. Napoleone III s’era dichiarato pronto ad appoggiare militarmente «de toutes ses forces» il Regno sardo, purché il casus belli non fosse di natura rivoluzionaria (lo spauracchio, come sempre, era Mazzini) e apparisse giustificabile agli occhi della diplomazia e dell’opinione pubblica di Francia e d’Europa. La ricerca di una causa ammissibile, riferì Cavour, aveva impegnato lungamente e senza costrutto i due interlocutori, che infine avevano deciso di «parcourir tous les États de l’Italie». Il loro “viaggio” sulla carta si era arrestato a Massa e Carrara, soggette al Duca di Modena, Francesco V d’Este, il «bouc-émissaire» (il capro espiatorio) del dispotismo: l’idea era di provocare un indirizzo degli abitanti di quelle infelici contrade a Vittorio Emanuele II, con richiesta di protezione, finanche di annessione della Lunigiana al Regno sabaudo, e di rispondere con una nota intimidatoria al Duca, la replica del quale avrebbe comportato l’occupazione sarda di Massa, l’intervento dell’Austria e dunque l’inizio delle ostilità. La progettata alleanza difensiva franco-sarda avrebbe potuto così funzionare. Risolto il problema primario, l’Imperatore aveva posto in evidenza i due gravi ostacoli costituiti dal Papa e dal re di Napoli: l’uno sostenuto dall’ala cattolica, l’altro dalla Russia. Ma con fermezza Cavour aveva replicato che la guarnigione francese era sufficiente a conservare al pontefice «la tranquille possession de Rome»; quanto alle Romagne non vedeva come non potessero approfittare della prima occasione favorevole «pour se délivrer d’un détestable système de gouvernement» che la corte di Roma si ostinava a non riformare. Del Re di Napoli per ora non era il caso di occuparsi, «à moins qu’il ne voulût prendre fait et cause pour l’Autriche»: del resto i suoi sudditi non avrebbero mancato al momento opportuno di sbarazzarsi «de sa domination paternelle». Non era rimasto dunque che passare «à la grande question»: lo scopo della guerra. L’Imperatore aveva ammesso senza difficoltà la necessità di cacciare definitivamente gli austriaci dall’Italia, senza lasciar loro «un pouce de terrain» al di qua delle Alpi e dell’Isonzo. Ma poi come organizzare la penisola? È questo il tema politicamente rilevante che caratterizza la seconda delle quattro fasi dell’azione cavouriana attraverso cui, in Cavour, l’idea di nazione prende forma, secondo l’aggiornata interpretazione di Umberto Levra, che, nel recente Convegno promosso dall’Accademia delle Scienze e dall’Università di Torino in occasione del bicentenario della nascita dello statista, ha corretto il fuorviante concetto di “Cavour tessitore” perpetuato dalla vecchia storiografia. Nel disegno abbozzato nel colloquio di Plombiéres, «susceptible d’être modifié», la penisola veniva ipoteticamente suddivisa in quattro parti: il Regno dell’Alta Italia, comprendente la valle del Po, la Romagna e le Legazioni, ovvero l’Emilia; Roma e il territorio circostante; il Regno dell’Italia centrale, comprensivo dei rimanenti territori degli Stati pontifici (Marche e Umbria) e della Toscana; infine il Regno di Napoli. I quattro «États italiens», alla stregua della Confederazione germanica, avrebbero formato una confederazione, la cui presidenza sarebbe stata assegnata al pontefice, qual tributo consolatorio per la perdita della parte migliore dei suoi Stati. Vittorio Emanuele II di Savoia, sovrano di diritto del Regno dell’Alta Italia, ossia «de la moitié la plus riche et la plus forte de l’Italie», a giudizio di Cavour, sarebbe divenuto di fatto sovrano «de toute la péninsule». Più sfumata la scelta di un sovrano da insediare a Firenze e a Napoli in caso di abbandono del trono da parte del granduca di Toscana Leopoldo II e di Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie. Napoleone III aveva lasciato intendere a Cavour ch’egli avrebbe visto con simpatia il ritorno di un Murat [Luciano] sul trono ch’era stato di Gioacchino (cognato del Bonaparte, questi aveva regnato sotto il Vesuvio dal 1808 al 1815). Dal canto suo Cavour aveva proposto l’insediamento provvisorio a Palazzo Pitti della duchessa reggente di Parma, Luisa Maria: soluzione che l’Imperatore aveva interpretato positivamente, in quanto segnale indubbio di conciliazione con la dinastia dei Borbone. A Plombières quasi certamente non si parlò dell’eventuale insediamento del principe Napoleone come sovrano dell’Italia centrale: soluzione ambita dall’Imperatore e dal suo parente, posta insistentemente in seguito sul tappeto. Né Cavour, al ritorno in Piemonte, vi accennò. A proposito di Napoli, invece, il Diario di Giuseppe Massari (emigrato tarantino, politico e memorialista), il 3 agosto 1858, un paio di settimane dopo Plombières, registrò l’opinione realistica del conte: «Ora la nostra questione è quella con l’Austria e non altra. Per avere il concorso (si legga: la neutralità) della Russia non dobbiamo toccar Napoli.... Quando l’Austria sarà scacciata dall’Italia il re di Napoli sarà finito». Il problema dunque era stato ragionevolmente accantonato: non così la disamina dei compensi territoriali alla Francia. L’Imperatore a Plombières aveva chiesto la cessione della Savoia e del Nizzardo: relativamente alla regione transalpina, culla della dinastia popolata da sudditi devoti, Cavour aveva replicato che in base al principio di nazionalità, il passaggio sotto la bandiera francese sarebbe stato possibile; per contro non aveva reputato cedibile Nizza, per lingua e consuetudini affine al Piemonte assai più che alla Francia. L’ambiguo Imperatore, accarezzando ripetutamente i mustacchi, s’era accontento di rinviare ad altro momento «des questions tout à fait secondaires», sicché il colloquio si era spostato sui mezzi da impiegare onde garantire il successo dell’impresa militare: vale a dire le forze da mettere in campo (non meno di 300.000 uomini, 200.000 da parte francese, 100.000 da parte piemontese, con il concorso dei volontari delle altre province italiane), la conduzione della guerra, il comando condiviso: e ovviamente la ripartizione degli oneri finanziari. Interrotto da breve pausa il dialogo era ripreso, come abbiamo ricordato, durante la passeggiata in carrozza nel riposante paesaggio boschivo, in un clima propizio ad affrontare lo spinoso argomento dell’alleanza matrimoniale caldeggiata dall’Imperatore in contrapposizione al tradizionalismo dinastico di casa Savoia. La delicata questione delle nozze tra un «parvenu», quale il chiacchierato Napoleone Bonaparte, e una principessa di sangue reale, come la pia Clotilde, occupa oltre metà delle quaranta pagine della relazione cavouriana al sovrano: il che testimonia quanto sia stato arduo trovare argomentazioni capaci di persuadere piuttosto il padre che il Re. Rientrato a Torino, Cavour redasse un «Résumé des points concertés à Plombières» in 22 articoli, più una addizione, che il 3 agosto trasmise a Napoleone III. Il primo punto chiariva lo scopo dell’alleanza: «Dans le but de délivrer l’Italie du joug de l’Autriche et de consacrer le grand principe de la nationalité italienne, il sera conclu un traité d’alliance offensive et défensive entre l’Empereur des Français et le Roi de Sardaigne». L’ottavo punto ribadiva che si sarebbe costituito un Regno dell’Alta Italia dalle Alpi all’Adriatico; il decimo riaffermava : «Les divers États italiens devront constituer une confédération» (Ep. 58, p.550); il dodicesimo dichiarava «La guerre ayant lieu en vertu du grand principe des nationalités, les populations de la Savoie pourront (si badi : pourront) être réunies à la France... La nationalité des habitants du comté de Nice étant douteuse, la question qui les regarde est réservée» Il trattato segreto, «devant toujours rester secret» concluso il 19 gennaio 1859, ma antidatato al 12 e 16 dicembre 1858, ossia un mese e mezzo prima delle nozze dei principi, integrava alcuni passaggi (il nuovo Regno dell’Alta Italia conterà 11 milioni di abitanti); ne modificava altri a vantaggio d’una sola parte (il menzionato regno dell’Alta Italia si accollerà tutte le spese di guerra; Nizza e Savoia saranno riunite entrambe alla Francia). La prospettiva di una confederazione di Stati fu invece soppressa, rimanendo salvaguardata la sovranità del Papa (Ep. 59, p. 1334). Nel marzo 1859 Napoleone III accolse la proposta russa di un Congresso europeo che mandava a monte gli accordi di Plombières e l’Inghilterra chiese il disarmo del Regno sardo. Contrariato, Cavour il 28 marzo diresse all’Imperatore una memoria ov’erano indicati i temi della campagna diplomatica che il Governo del Re si proponeva di svolgere al Congresso al fine di precisare il proprio orientamento: tra i punti taciuti nella convenzione segreta siglata pochi mesi prima, riportati in luce, v’era la costituzione di una confederazione di Stati italiani dotati di «institutions représentatives», tra i quali introdurre «une union de douanes parfaite, unite monétaire, uniformité dans les institutions militaires». Il Congresso sfumò; la guerra venne dichiarata dall’Austria alla fine di aprile; al successo franco-piemontese a Magenta (4 giugno) e al trionfale ingresso di Napoleone III e Vittorio Emanuele II in Milano (8 giugno), seguirono le vittoriose, cruenti battaglie di Solferino e San Martino (24 giugno). I rumori di un’opinione pubblica francese sempre più ostile raggiunsero l’Imperatore. Sicchè i primi di luglio Francia e Austria decisero la sospensione delle ostilità; l’8 luglio a Villafranca fu firmato l’armistizio, e l’11 furono siglati i preliminari di pace. Cavour si dimise e il re costituì un nuovo ministero (La Marmora – Rattazzi). Il progetto di formazione di un Regno dell’Alta Italia era tramontato; tramite la Francia il Regno sardo acquisiva la Lombardia e per il momento conservava Savoia e Nizza. Nell’Italia centrale, tra aprile e giugno, la guerra aveva favorito il cambiamento dei sistemi politici: il granduca di Toscana e i duchi di Modena e Parma avevano abbandonato i loro Stati e nelle Romagne insorte contro il governo pontificio s’erano costituiti ordinamenti provvisori sotto il protettorato del Regno sardo. Nonostante gli accordi di Villafranca prevedessero il “rientro” dei rispettivi sovrani, assemblee rappresentative appositamente elette deliberarono in agosto l’annessione al Regno sardo. Il voto fu “accolto”, ma non poté essere accettato formalmente dal Re. Cavour, seguì le vicende in disparte, sinché richiamato dal sovrano, il 20 gennaio 1860 tornò in carica. Nonostante le manovre ambigue dell’Imperatore, che sosteneva per la Toscana la soluzione di un «Royaume séparé sous le sceptre d’un prince de la maison de Savoie», l’11 e 12 marzo i plebisciti confermarono la volontà delle assemblee; il 18 e 22 marzo l’annessione dell’Emilia e Toscana fu fatto compiuto: la contropartita fu la dolorosa cessione di Nizza e Savoia alla Francia. La partita di abilità tra i due “congiurati” di Plombières era conclusa (Pischedda, Problemi p. 204) Come sappiamo l’iniziativa garibaldina della spedizione dei Mille (all’alba del 6 maggio 1860) diede la spinta decisiva all’unificazione. Cavour, perspicace e realista, non stette a guardare: a fine agosto, decisa la spedizione dell’esercito regolare nelle Marche e nell’Umbria, scriverà: «Le moment est suprème. Du résultat du plan... dépend... le sort de l’Italie» (Ep 60, n. 2274). Attraverso una rapida successione di eventi, tra cui si segnalano i plebisciti del 21 e 22 ottobre nell’Italia meridionale e in Sicilia e del 4 e 5 novembre in Umbria e nelle Marche, l’unificazione italiana – ad esclusione di Venezia e di Roma – era di fatto compiuta. Il 27 gennaio gli elettori della nazione scelsero i deputati dell’VIII legislatura, che per la prima volta, il 18 febbraio, si sarebbero trovati fianco a fianco in Parlamento. Questa l’estrema sintesi degli avvenimenti succeduti a Plombières, attraverso i quali, dalla mera ipotesi di una penisola ripartita in quattro Stati confederati, si concretò l’Italia unita. Ignoriamo in qual modo Cavour avrebbe concretamente organizzato la futura struttura dello Stato unitario. Le chiose autografe alle proposte di legge Minghetti mostrano peraltro l’attenzione ch’egli pose al sistema amministrativo fondato sulle autonomie locali delineato in quei documenti, arenatisi in Parlamento, ov’erano stati presentati il 13 marzo 1861 (Tutti, p. 2070 e note; Ep 61, n. 914, Ap. II). In una lettera a Massimo Cordero di Montezemolo luogotenente del Re a Palermo, il 15 gennaio 1861 egli aveva scritto: «le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia d’una capitale [Torino] sulle provincie, né la creazione d’una casta burocratica che soggioghi tutte le membra e le frazioni del Regno all’impero d’un centro artificiale, contro cui lotterebbero sempre le tradizioni e le attitudini dell’Italia, non meno che la sua configurazione geografica», e aveva aggiunto: «Io... non ho il menomo dubbio che, quando siano sedati i commuovimenti che alcuni mestatori s’ingegnano di suscitare rinfocolando le ire personali, sarà facilissimo di mettersi d’accordo sopra uno schema d’organizzazione, che lasci al potere centrale la forza necessaria per dar termine alla grande opera del riscatto nazionale, e conceda un vero self governement alle regioni e alle provincie» (Ep. 61, n. 212). E il 20 febbraio aveva rassicurato il “barone di ferro” Ricasoli: «Nessuno dei ministri è d’indole accentatrice: tutti sono disposti a lasciare alle autorità locali una larga facoltà d’azione, onde ridurre al minimum gli affari da trattare nella capitale» (Ep. 61, n.. 687) Troppo poco, forse, per immaginare gli sviluppi positivi della strategia politico-amministrativa postunitaria di Cavour, che il 6 giugno improvvisamente chiuse gli occhi portando in un “altrove” inaccessibile il suo pensiero. 18 febbraio 2011 Rosanna Roccia