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 2011  febbraio 17 Giovedì calendario

IL VOLO DI MASSIMO

Per lo Stato è una crocetta nelle statistiche sulle morti bianche: l’ennesimo incidente sul lavoro. Ma la tragedia di Massimo Amato è una doppia sconfitta. Perché lui la sua scelta l’aveva fatta: aveva lasciato Casal di Principe, Gomorra, per non piegarsi alla criminalità e cercare di vivere onestamente: "La scuola no, ma nemmeno la strada di Casal di Principe, la brutta gente, la camorra... perché quella parola significa morte", ripeteva. E così era finito a spaccarsi la schiena a Imola, operaio edile, per 50 ore a settimana pur di far campare onestamente moglie, tre figli e il quarto in arrivo. Forse il tanto sperato maschietto. E invece la morte l’ha seguito fin lassù. E se l’è preso a 35 anni. A seicento chilometri da casa. Un volo di venti metri dall’impalcatura. Un attimo che ha trasformato il sogno di una vita onesta nell’incubo della più assurda delle disgrazie. Era il 27 gennaio. E nelle tabelle dell’Inail, oltre a Massimo, solo a gennaio se ne sono aggiunti 60, tra cantieri, campi e industrie. Significa quasi il 60 per cento in più dell’anno scorso. Significa due morti ogni giorno e ribalta le proiezioni del 2010, quando il ministero del Lavoro parlava di calo ormai fisiologico.
Anche Massimo lavorava in cantiere. E proprio quella mattina la sua Barbara gli aveva telefonato: "Amore, sono arrivati i 1.400 euro di arretrati che aspettavamo da più di un anno". Lui se li era quasi dimenticati. Era così felice che dall’impalcatura gli sembrava di vedere il tetto di casa, chissà dove, all’orizzonte. Aveva pure pensato di farle un regalo con quel gruzzolo ormai insperato. Un assegno di disoccupazione del 2009, giorni di difficoltà e di stenti, che ormai sembravano acqua passata grazie al nuovo lavoro. Già. Costruiva palazzine nel cuore di Imola per la C.M. di Afragola, che aveva ottenuto quella commessa in subappalto dalla Cesi, una grande impresa della galassia Legacoop. Gente seria, diceva, e soprattutto gente che paga: così, a fine mese, lo stipendio era certo: 1500 euro per pagarsi affitto, bollette e mantenere da solo la famiglia. E invece no. Massimo è caduto da quell’impalcatura pochi minuti dopo la telefonata. Un istante. "Mi hanno telefonato e mi hanno detto che mancavano alcune transenne di protezione: non so come si chiamino, ma un qualcosa che si apre e si chiude come un cancelletto. Era aperto", racconta la moglie Barbara. Le restano solo le fotografie. Che raccontano la loro vita insieme. Lui sempre al lavoro. Prima apprendista in una ditta di trasformazione del vetro a Casal di Principe. Quando partiva tutte le mattine da Afragola, alle porte di Napoli, lasciandosi dietro tanti amici che, per sbarcare la giornata, si fermavano invece nei rioni dominati dal clan Moccia. È quando decidono di sposarsi che Massimo sceglie di cambiare vita: secchio e cazzuola. In quella zona almeno metà del Pil viene dalle costruzioni e l’abilità dei maestri muratori dell’agro-aversano, ’e mast, è celebre in tutta Italia. Ma qui a Gomorra i cantieri hanno un solo padrone: la camorra. Grandi opere, assi viari e Alta Velocità: "A voi sembra facile. Qui, per lavorare, dovevi conoscere qualcuno: o un politico o peggio...", dice la mamma di Barbara. Stare fuori da quel giro dei grandi appalti significa non lavorare. E così, da 13 anni, Massimo se ne andava su e giù per l’Italia. Partiva la domenica per ritornare il venerdì, quando andava bene. Se c’era da fare, però, se ne stava al Nord. Anche per un mese, senza tornare a casa e vedere le figlie.
Tre anni fa avevano provato a seguirlo. S’erano trasferiti a Ferrara ma, dopo nove mesi, la voglia di tornare a casa era stata più forte. E a Massimo non era rimasto altro da fare che il pendolare. Con il sogno di guadagnare abbastanza per costruirsi una casa: "Avevamo da poco acquistato un terreno, che ancora non abbiamo finito di pagare", racconta Barbara. Gli incidenti sul lavoro qui a Gomorra fanno più vittime della criminalità organizzata. È la strage vera silenziosa. Negli ultimi 18 mesi sono morti nove operai edili dell’agro aversano. Senza che nessuno si scandalizzasse, senza che nessun telegiornale ne desse notizia e che nessun ministro andasse a rendere conto in Parlamento. La causa di queste morti spesso è la corsa al massimo ribasso negli appalti. Ci sono sempre meno soldi e, se le materie prime rincarano, si taglia sulla manodopera e sulla sicurezza: caschi, cinture, teli protettivi e transenne. Insomma, tutto ciò che ci sarebbe dovuto essere nel cantiere di Imola dove è morto Massimo e su cui ora l’inchiesta della magistratura farà chiarezza.
Potrebbe essere un primo passo per far parlare l’Italia di questa piaga nascosta nelle terre di Gomorra. Storie che si somigliano tutte: quella di Franco morto a Firenze, di Renato a Lecce, di Pasquale a Pozzuoli, di Marco a Imola. Storie di ragazzi che non si sono arresi al loro destino di crescere e finire in terra di camorra, che hanno macinato chilometri e ore di duro lavoro per morire come i loro coetanei e compagni di giochi di infanzia che avevano scelto l’altra strada. Quella della camorra, che nell’ultimo anno e mezzo ha fatto registrare due morti ammazzati, un quarto dei casalesi morti in cantiere.
Da casa Amato si vede una villa con le colonne di marmo. È la reggia di un boss. "Qui, in almeno l’ottanta per cento delle famiglie della zona, c’è un lavoratore edile", spiega il sindacalista Franco Cirillo. Ma è pure vero che, anche se alla larga, c’è sempre un parente camorrista. E se scegli la strada del lavoro onesto non è detto che non finisca lo stesso per ritrovartene uno in famiglia. Emilio Caterino, uno degli ultimi pentiti tra gli ex affiliati al clan dei Casalesi, per anni aveva fatto l’escavatorista per una ditta locale, prima di passare dall’altra parte e ritagliarsi in poco tempo un ruolo importante nel gruppo di fuoco di Bidognetti. Colpisce spalla a spalla con Giuseppe Setola, il boss sanguinario che prova a suon di pallottole a farsi strada nella camorra che conta. Pure lui aveva avuto la possibilità di scegliere una strada diversa: il padre, manovale, era stato per anni delegato sindacale nell’agro aversano. Ma da lui non aveva ereditato certo la pazienza per contrattare: per mettere d’accordo padroni e lavoratori, Peppe ’o cecato, preferiva kalashnikov e pistole.
Anche nell’album di famiglia di Massimo Amato c’è un camorrista: Luigi Grassia, il fratello della moglie, pure lui del clan Bidognetti. Ma a casa nessuno ne vuole nemmeno parlare. Non è omertà, piuttosto è la voglia di cancellare quella che per loro è una macchia. Se lo chiedi a Barbara, esita per un istante. Poi, riprende a raccontare di Massimo e di quelli che in famiglia hanno scelto ’a fatica. I fratelli e i cognati, come Vincenzo, carpentiere, che proprio sul lavoro s’è ferito alla mano destra. Marchiato a vita anche lui. Non da un revolver, ma da una sega circolare.