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 2011  febbraio 11 Venerdì calendario

Quando per fare politica si lasciavano le cariche - Se non ci saranno sorprese in zona Cesarini, domenica pomeriggio Gianfranco Fini sarà acclamato Presidente del neonato partito di "Futuro e libertà", ma un minuto dopo si autosospenderà

Quando per fare politica si lasciavano le cariche - Se non ci saranno sorprese in zona Cesarini, domenica pomeriggio Gianfranco Fini sarà acclamato Presidente del neonato partito di "Futuro e libertà", ma un minuto dopo si autosospenderà. Per arginare le prevedibili polemiche che i suoi nemici riaccenderanno sul paradosso di un arbitro che, non appena esce dall’aula di Montecitorio, veste la maglia di una delle squadre in campo. Un fuoco polemico che, per quanto indebolito dai guai di Berlusconi, resta insidioso. Tanto più che il Pdl, concentrandosi sull’originalità di un presidente della Camera, terza carica dello Stato, che chiede le dimissioni del capo del governo (un giocatore in campo), finora non ha attinto alla copiosa casistica di Presidenti di assemblea legislativa che nel passato si sono spontaneamente dimessi per raggiunta incompatibilità. I precedenti sono quattro e riguardano personalità carismatiche: Giuseppe Saragat e Sandro Pertini che sarebbero successivamente diventati Capi dello Stato e due senatori a vita come Amintore Fanfani e Cesare Merzagora. Il primo caso risale ai primi giorni del 1947. L’11 gennaio a palazzo Barberini si consuma la dolorosissima separazione all’interno del Partito socialista guidato da Pietro Nenni. A guidare la scissione è Giuseppe Saragat, che sei mesi prima era stato eletto presidente dell’Assemblea Costituente. Seguono Saragat nel Psli 44 parlamentari (uno in più rispetto a quelli che oggi stanno con Fini, ma questa è soltanto una curiosità) e il primo annuncio dei socialisti democratici è eloquente: usciamo dal governo De Gasperi, per «dedicarci all’opera di riorganizzazione nel Paese». In questo disimpegno dal governo l’analogia con la vicenda-Fli è palpabile, ma negli eventi successivi si smarrisce ogni paragone: il 6 febbraio, nell’aula di Montecitorio viene letta una lettera di Saragat: «Rassegno le dimissioni da presidente dell’Assemblea costituente». Una sobrietà eloquente, come se non fosse necessario spiegare. De Gasperi fa altrettanto: «Non intendo interferire in una questione di esclusiva competenza dell’Assemblea». Palmiro Togliatti: «Per la signorilità e l’imparzialità, le dimissioni vanno respinte». L’aula segue il consiglio ma Saragat terrà il punto. Una sequenza di altri tempi. Commenterà Leo Valiani: «Quella di Saragat è stata una prova di idealismo pratico, ammirevole». Il secondo caso si consuma 20 anni dopo e anche in questo caso si possono scorgere analogie con la vicenda finiana, ma per un altro verso. Nei primi giorni del 1967, il presidente del Senato Cesare Merzagora, un laico eletto nelle liste della Dc in un discorso esprime blande critiche sulle Regioni a statuto ordinario che stanno per prendere forma. Basta qualche sussurro critico nei suoi confronti, per indurre Merzagora a presentare le dimissioni, il 6 novembre del 1967. L’aula del Senato le respinge, ma l’indomani Merzagora le presenterà di nuovo. Irrevocabili. Per il terzo caso, bisogna aspettare altri due anni. I socialisti di Nenni e Saragat (che nel 1966 si erano riuniti dopo la scissione di Palazzo Barberini), tornano a dividersi. Sandro Pertini, che in precedenza era stato indicato alla presidenza della Camera dai socialisti uniti, il 7 luglio 1969 si presenta dimissionario davanti all’aula. Un gesto apprezzatissimo, tutti gli chiedono di restare e in anni nei quali i deputati missini erano tenuti a distanza da tutti anche alla buvette, persino il loro rappresentante, De Marzio, annuncia: «Non abbiamo votato Pertini presidente, ma per la sua coraggiosa imparzialità chiediamo che resti». Pertini resterà. Ma dopo essersi formalmente dimesso. Quattro anni più tardi, è il 26 giugno 1973, l’ultimo precedente: il presidente del Senato Amintore Fanfani, eletto segretario della Democrazia cristiana, presenta le sue «dimissioni irrevocabili». E c’è poi il caso di Pietro Ingrao, che nel 1976 sale sullo scranno più alto di Montecitorio. E’ la prima volta per un comunista, ma dopo tre anni di quella esperienza, Ingrao chiede ad Enrico Berlinguer di non tornare su quella poltrona, perché vuole sentirsi libero. Anche di far politica. Una passione in prima persona alla quale, negli anni della Presidenza, aveva ovviamente rinunciato. Berlinguer capirà e alla presidenza della Camera andrà Nilde Iotti, anche lei attentissima a tenersi a distanza.