Pietro Saccò, varie, 10 febbraio 2011
I BIOCARBURANTI, PER VOCE ARANCIO
Non è tutto petrolio quel che c’è nel pieno. Una piccola quota nella miscela di benzina o gasolio è di origine non fossile: biocarburante. E dal primo gennaio quella quota è salita dal 3,5 al 4% (per effetto di un decreto del ministro dello Sviluppo economico).
Secondo i calcoli di Nomisma Energia questa novità ci è costata un rincaro di 0,189 centesimi al litro solo a gennaio. Il biofuel da miscelare con benzina e gasolio, sempre secondo Nomisma, ha prodotto un aumento del prezzo finale della benzina e del diesel da 1,5 centesimi al litro tra il 2007 e il 2011.
Ma non abbiamo tanta scelta. Il piano 20-20-20 dell’Unione europea dice che entro il 2020 bisogna ridurre del 20% le emissioni di gas serra, aumentare del 20% l’efficienza energetica e produrre il 20% dell’energia con fonti alternative. Nel settore dei trasporti l’obiettivo è un po’ meno ambizioso e prevede che la quota di energia da fonti rinnovabili, nel 2020, raggiunga almeno il 10% del consumo finale.
L’Italia si è data le tappe necessarie per raggiungere l’obiettivo: la quota minima di biocarburanti all’interno di benzina e diesel è stata fissata all’1% nel 2007, al 2% nel 2008, al 3% nel 2009, al 3,5% nel 2010, al 4% nel 2011 e al 4,5% nel 2012. Poi sarà spalmato il rincaro di un altro 5,5% in 8 anni.
I petrolieri non sono contenti. Ascoltato in Senato qualche giorno fa, Pasquale De Vita, presidente dell’Unione petrolifera, ha confermato che il settore è «disponibile a impiegare biocarburanti in sostituzione parziale di carburanti fossili». Ma chiede cautela sull’imposizione di obblighi per il futuro e fa presente che questi obblighi possono avere «pesanti conseguenze negative» sui prezzi alla pompa.
Il problema è che stiamo usando i biocarburanti di “prima generazione”, e questi, ha detto De Rita, «presentano criticità tali da renderli inadeguati a soddisfare gli obblighi del 2020 nel settore dei trasporti».
C’è qualcosa di strano se da noi i biocarburanti sono un problema quando ci sono nazioni che su questi combustibili stanno costruendo la loro crescita. Paesi come il Brasile, oggi regno dell’etanolo.
I brasiliani coltivano canna da zucchero dal 1500 (perché i portoghesi volevano esportare lo zucchero in Europa) e già all’inizio del secolo scorso ne ricavavano anche carburante con l’etanolo prodotto dalla sua fermentazione. Il petrolio, però, costava meno e quindi la produzione era molto scarsa. Fino agli anni Settanta: la crisi petrolifera ha fatto impennare il prezzo della benzina e per difendersi il governo brasiliano ha ritirato fuori le vecchie canne da zucchero.
Con il “Programa Nacional do Álcool” del 1975, il Brasile ha iniziato a finanziare la produzione di automobili capaci di funzionare con l’etanolo prodotto dalla canna da zucchero. Nel 1979 era già pronto il primo modello. Italiano. Una Fiat 147 costruita in Brasile e capace di funzionare solo con combustibile composto al 100% di etanolo.
La quota di etanolo obbligatoria nei carburanti brasiliani è stata portata dal 10% del 1976 al 22% del 1992. Difatti oggi in Brasile non si trova più benzina “pura”. La legge prevede che il volume di etanolo vegetale nei carburanti debba essere compreso tra un minimo del 20 e un massimo del 25%.
Per arrivare a questi obiettivi il governo brasiliano ha adottato tre strategie parallele: la compagnia di Stato dell’energia, la Petrobras, è obbligata ogni anno a comprare una certa quota di etanolo; le aziende che coltivano la canna da zucchero ricevono milioni di sussidi statali; i prezzi sono fissi: l’etanolo costa il 59% di quanto costa la benzina.
Con le prime auto capaci di funzionare sia coi carburanti tradizionali che con quelli a etanolo – i veicoli flexible-fuel, la prima è stata una Golf 1.6 del 2003 – il mercato è esploso e oggi in Brasile è “flexible” il 90% delle auto vendute. Praticamente tutti i marchi sono in grado di offrire veicoli simili. Fiat è leader del mercato: sua un’auto su cinque.
Con 24,9 miliardi di litri di biocombustibile, il 37,7% della produzione mondiale, il Brasile oggi è il secondo produttore di biocarburanti al mondo, dietro agli Usa, ma è il primo esportatore mondiale.
L’Europa e l’Italia non potrebbero imparare dall’esperienza americana? No, perché per produrre bioetanolo servono migliaia di ettari di terreni coltivabili. Se l’Europa ha in tutto 3,6 milioni di chilometri quadrati di aree coltivabili, il Sudamerica ne ha 10,8 milioni. Non c’è spazio. Solo l’Africa, con 11,2 milioni di chilometri quadrati, potrebbe sfruttare al meglio queste possibilità.
Tra i problemi posti dai biocarburanti c’è quello del cibo: sottrarre terreni alla coltivazione di prodotti destinati a sfamare la popolazione mondiale per produrre combustibile a molti non pare una grande idea. La Fao ha scritto che la produzione di colza, mais, girasole, soia e canna da zucchero per produrre biocarburanti è stata uno dei fattori all’origine della crisi dei prezzi alimentari del 2008.
Negli Usa oltre il 40 per cen to del granoturco coltivato – il 15 per cento della produzione mondiale – è dirottato alle fabbriche di combustibili. Le quotazioni in cinque anni sono salite del 71%, contro il 55% del petrolio.
Non è affatto sicuro che dai biocarburanti derivi un grande guadagno energetico. Il bioetanolo prodotto da mais negli Stati Uniti ha infatti una resa di 1 a 1, ovvero è necessaria un’unità di energia fossile per produrre (attraverso la coltivazione, con irrigazione e fertilizzanti, la raccolta e il trasporto) un’unità di biocarburante. Questo rapporto sale a 1 a 8 nella produzione brasiliana da canna da zucchero.
Senza contare che le macchine agricole non vanno a biofuel ma a gasolio, che i fertilizzanti sono responsabili di una grossa quota delle emissioni di CO2 in atmosfera, e che poi bisogna convertire il mais in energia, usandone dell’altra. Secondo alcuni studiosi, il bilancio economico è positivo solo in Brasile.
Il 24 gennaio l’Environmental Protection Agency statunitense ha dato il via libera al controverso aumento della quantità di bioetanolo nella benzina utilizzata da automobili e camion leggeri costruiti tra il 2001 e il 2006. L’agenzia che già nel mese di ottobre aveva approvato un analogo aumento per i veicoli fabbricati a partire dal 2007, ha deciso di estendere l’impiego dell’E15, la miscela carburante composta al 15% di etanolo, anche ai veicoli leggeri realizzati a partire dal 2001, abbandonando quindi il precedente limite del 10%.
Milioni di americani si interrogano sulla durata presunta di vita del motore delle proprie automobili. Con questi nuovi limiti 74 milioni di vetture dovrebbero essere rapidamente avviate alla rottamazione.
In Italia utilizziamo biocarburanti dal rendimento energetico anche inferiore. Dagli stessi gruppi ambientalisti, un po’ in tutto il mondo, sta emergendo una sempre maggiore contestazione del bicoarburante di prima generazione. Persino il premio Nobel per la pace Al Gore, autore del film An Inconvenient Truth sull’effetto serra, adesso dice che «l’uso dell’etanolo è stato un errore. Il guadagno della riconversione energetica è, nel migliore dei casi, molto basso».
Maggiori soddisfazioni, in Europa – dove è il biodiesel il biocarburante prevalente – potrebbero arrivare dalla nuova generazione di biocarburanti. Ne fanno parte combustibili prodotti da coltivazioni non destinate all’uso alimentare o da residui forestali, con un dispendio minimo in termini di fertilizzanti e irrigazione.
Nel Parco tecnologico di Rivalta Scrivia, sede piemontese del Distretto agroenergetico del Nord Ovest, la Mossi & Ghisolfi, colosso italiano della chimica, ha già attivato una raffineria sperimentale, diretta non a caso da un ingegnere brasiliano, che produce bioetanolo a partire dalla canna Arundo donax, una pianta palustre che può crescere tutto l’anno su terreni marginali e che l’azienda coltiva oggi su una superficie di 60 ettari nella provincia di Alessandria. Si prevede la raffinazione di 45mila tonnellate di biocarburante già dal prossimo anno.
Esiste anche il biometano. Può essere utilizzato senza modifiche ai motori nelle auto già a metano. Può essere prodotto dai liquami e letami degli allevamenti, dalle acque reflue, dalla frazione organica dei rifiuti urbani, dai sottoprodotti della filiera agricola e dagli scarti di macellazione.
Un’altra soluzione passa dalle alghe. Un recente rapporto della società di analisi di mercato Sbi Energy dice che entro il 2015 il mercato del biofuel prodotto con le alghe passerà dai 271 milioni di dollari stimati nel 2010 a 1,6 miliardi di dollari, con un tasso di crescita del 43%.
In Italia ci lavorano due società. La genovese Biotema vuole progettare un impianto su scala industriale. La romana Enalg, in partnership con la spagnola Bfs, ha già realizzato ad Alicante un impianto affiancato all’enorme cementificio della messicana Cemex. Le alghe coltivate attraverso la fotosintesi assorbono la CO2 emessa dal cementificio e vengono poi estratte per farne biocarburante: 2,2 tonnellate di CO2 producono un barile di carburante. Enalg vuole provare a costruire un impianto dimostrativo sull’isola di Pellestrina.
Tutte vorrebbero più incentivi. In Italia sono scarsi (un centinaio di milioni di euro all’anno). Secondo gli studi del Politecnico di Milano lo Stato italiano, con metà dell’attuale incentivo riservato all’energia elettrica da fonte rinnovabile, potrebbe rendere ampiamente competitivo il biometano, per il quale l’Italia dispone già di una buona rete infrastrutturale e di una filiera (quella del metano tradizionale) tra le più avanzate in Europa.