Antonio Gnoli, la Repubblica 10/2/2011, 10 febbraio 2011
OTTAVIO MISSONI: "ALLA RETORICA DEL DOLORE PREFERISCO QUELLA DEL COLORE"
Ottavio Missoni – detto "Tai" dagli amici – compie domani 90 anni. Vado a trovarlo nel suo mondo, a Sumirago, una cinquantina di chilometri da Milano, dove agli inizi degli anni Sessanta, ha impiantato nel verde la sua azienda. E costruito la casa dove abita: con l´orto, i polli, il campo sportivo, il giardino e le sue amate rose. È una campagna addomesticata, piacevole, quella che mi viene incontro. E penso che l´idea di Missoni e di Rosita – la moglie con la quale condivide tutto da più di cinquant´anni – è stata molto intelligente: lavorare in un luogo gradevole, dove i milanesi vanno a passare i weekend e incontrare gli amici a Milano, vederli al ristorante o in osteria, magari nei fine settimana. Perché Ottavio Missoni – prima atleta apprezzatissimo, perfino dal grande Brera, poi imprenditore di successo – ama come pochi la vita. Quella comoda, che scorre secondo i ritmi della natura più blanda, senza apprensioni né stress. E ora che gli sono di fronte e ne guardo i segni di una bellezza che non cede, penso che sia stato un uomo fortunato. Ma di una fortuna tutta speciale. Fatta non di biglietti della lotteria, ma di una sprezzatura e di un talento nel saper cogliere il meglio dalle cose e dalle persone.
Non è questo il segreto della creatività? Mi guarda come se avessi scoperto l´acqua calda: «Dovrei prendere il peggio dal mondo?», dice con quel leggero accento che sembra riecheggiare le sue origini dalmate. Da quella lontana Ragusa, dove è nato, e che nella mente di Missoni resta come il luogo delle favole. Ma in fondo tutta la sua vita è stata una grande favola.
«Io preferisco definire la mia vita una lunga corsa a ostacoli. Eccellevo anche in quella gara. Quattrocento metri, dieci ostacoli alti e si deve essere fluidi nella corsa, avere ritmo nella testa e forza nelle gambe, per arrivare al traguardo possibilmente primo Questa è stata la mia vita: affrontare con uno stile fluido e leggero tutto quello che incontravo e superarlo».
Lei non dà l´idea di un´iniziazione attraverso il dolore che fortifica, e del sacrificio portato come esempio.
«Alla retorica della sofferenza preferisco quella del colore. Sono un uomo che ha dedicato larga parte della propria vita alle righe, anche a quelle dei campi di atletica, e ai colori dei miei tessuti che mi danno allegria. In questo regno c´è poco spazio per il dolore. Saprà che sono stato prigioniero degli inglesi durante la guerra».
L´ho appreso leggendo la sua autobiografia, Una vita sul filo di lana, appena uscita da Rizzoli.
«Quattro anni in Egitto. Amo dire che sono stato ospite di Sua maestà britannica».
I campi di prigionia inglesi erano particolarmente duri.
«Erano duri in Kenya e in India. Non dove ero io. In Sudafrica poi sembrava un Club Med. Per quello che ho patito diciamo che sono stati anni corretti».
Com´era la sua vita da prigioniero?
«Due sono stati sempre i miei passatempi preferiti: dormire e leggere. Anche lì, mi sembrava di continuare ad essere me stesso. Aggiungerei che la prigionia per me è stata la prima grande esperienza umana. Ho intuito, conosciuto meglio che altrove il prossimo. Se passi anni con qualcuno, non puoi barare: diventi trasparente all´altro, come l´altro a te».
Come l´hanno catturata?
«Fu durante uno scontro a El Alamein. Ero addetto ai telefoni e una notte uscii per aggiustare le linee che si erano guastate. Fui sorpreso da un bombardamento e mi rifugiai dentro una buca. Ero talmente stanco che mi addormentai. All´alba fui svegliato da un rumore di carri armati. Uscii dalla buca e vidi i cingolati tedeschi che si allontanavano. Provai a rientrare nelle mie linee: ma i tedeschi erano scomparsi, sentii un neo-zelandese che col fucile puntato mi disse "come on". Era il 21 ottobre del 1942».
Si è parlato spesso – soprattutto a destra – dell´eroismo degli italiani che hanno combattuto a El Alamein. Che ne pensa?
«Non so di quale eroismo si possa parlare. Combattevamo senza i mezzi che avevano gli avversari. Fu una guerra stronza che non avremmo mai dovuto iniziare. Poi hanno costruito il famoso cimitero di El Alamein, mitico e commovente perché i morti sono sempre i morti. Ci siamo difesi. Ma per chi e per cosa? Aggiunga che io ero uno dei 360 mila esuli, tra quelli che provenivano dalla Venezia Giulia, dall´Istria e dalla Dalmazia, e per noi la guerra è stata una tragedia doppia».
In che senso?
«La nostra colpa è stata di farla e di perderla. Gli istriani e i dalmati hanno pagato un conto sia morale che materiale, come nessun altro italiano. Eravamo esuli senza ritorno. A Zara, dove c´eravamo trasferiti, furono in migliaia a morire dal 1943 in poi. Le nostre foibe furono il mare Adriatico e Zara fu quasi interamente distrutta. Potevamo conservarla solo nel nostro cuore».
In che anno fu liberato?
«Alla fine del 1946. Andai a Trieste, dove si era trasferita mia madre. Mio padre era in giro per il mondo come capitano di lungo corso e io ripresi, a poco a poco, la mia attività sportiva».
Lei è stato un eccellente atleta: campione di varie specialità della corsa: i 400 e i 400 ostacoli. Ha partecipato anche all´Olimpiade di Londra dove arrivò sesto nella finale dei quattrocento metri, ma avrebbe potuto vincere una medaglia. In realtà, le medaglie lei le ha vinte nel campo della moda.
«La parola "moda" mi fa sobbalzare. E mi sento improvvisamente a disagio. Comunque sono entrato in questo mestiere casualmente. Non ho fatto studi particolari. È passato ormai tanto tempo da quando con Rosita cominciammo questa avventura. Abbiamo fatto cose innovative nella maglieria. E siamo usciti fuori con delle nuove esperienze che ci sono state riconosciute col passa parola. Avevamo lo spirito un po´ anarchico dello star fuori dalle regole. Io penso che si possono fare grandi cose standone dentro, ma per fare cose nuove devi uscire dalle regole. E ci è andata bene. Non so perché. Non avevamo mai programmato niente».
Le piace vivere alla giornata?
«Sì, il modo migliore per me di apprezzare la vita è non darsi dei traguardi».
A volte il suo lavoro sulle righe e sui colori è stato accostato all´arte.
«Non mi sento un artista anche se ho fatto mostre e i nostri manufatti sono in alcuni importanti musei del mondo. Non vorrei perdere la mia identità di artigiano».
Ma per un artista o un artigiano è più proficuo copiare o rubare?
«Copiare è arrivare dopo che gli altri hanno già fatto il lavoro. Rubare è riconoscere che c´è qualcuno artisticamente più ricco di te. Picasso rubava, ma ere un genio che sapeva cogliere cosa c´era nell´aria. Per dirla con un paradosso: duemila anni fa già copiavano i nostri tessuti sulle Ande, nei villaggi dell´Afghanistan e in Egitto. Insomma qualunque cosa fai, da qualche parte del mondo, in età remota, qualcuno l´ha già fatta. Noi più o meno inconsciamente l´abbiamo ripresa e interpretata».
Si è parlato di una predilezione per le forme dell´arte astratta.
«Ci sono testimonianze in tal senso. Ma quello che posso dire è che il mio rapporto con il colore non l´ho appreso da nessuna scuola. I colori sono come le note musicali, pochi ma in grado di creare infinite sfumature. È difficile spiegare perché si sceglie un colore o un accostamento piuttosto che un altro. Io lo faccio d´istinto. Come scegliere un amico».
O una donna?
«Ne ho avute, certo. Ma 53 anni di matrimonio con una persona straordinaria hanno tolto le ali al seduttore».
Lucia Bosè la paragonò a un angelo.
«E´ vero. Ma lei non era ancora Miss Italia e io ero solo uno sportivo».
Chi le ha dato il soprannome "Tai".
«Una ragazza tedesca con cui fui per un po´ fidanzato durante la guerra. Forse era il diminutivo di Ottavio».
Cosa le manca di quegli anni?
«E´ difficile fare bilanci sobri e adeguati. Potrei dirle che mi manca tutto o niente. Non posso più correre i 400 metri? Pazienza. Quella roba sportiva fa parte di un periodo che per ragioni fisiche e naturali non può tornare. Non c´è rimedio. Non sai con chi prendertela. Chiuso. Restano i ricordi. Belli. Non ho malinconie».
Come vede la sua vecchiaia?
«Mi piacerebbe interpretarla come i miei colori, accostando sensazioni diverse. Ma so che è una brutta malattia, che puoi curare ma dalla quale non puoi guarire. Mi consola sapere che nella vecchiaia ritrovi l´innocenza. Peccato che duri poco».
E´ morto il suo amico Cesare Rubini, come lei grande sportivo. Cosa ha provato?
«Cesare era triestino, per un periodo abbiamo frequentato la stessa palestra. Un grande atleta. Un amico brusco e sincero. Eravamo preparati alla sua morte. Ma il saperlo non mi mette di buon umore».
Cos´è per lei l´amicizia?
«Un modo di rispecchiarmi negli altri: anche nel buon vino e nel buon cibo. Ho contribuito alla formazione di un gruppo che si incontrava ogni settimana in una trattoria milanese. Arpino ci scrisse su un racconto: "Gli amici del martedì"».
Tra questi amici c´era Gianni Brera. So che voleva scrivere una biografia su di lei.
«E´ vero. La voleva intitolare "Primo sul filo di lana". L´autobiografia che è appena uscita, nel titolo vuole essere un omaggio a lui. Fu un uomo di grande umanità e generoso, anche nelle lodi che tesseva su di me».
Meritate?
«Davanti ai complimenti che mi venivano fatti mia madre diceva: "Il mio Ottavio è il più bravo di tutti in tutto, basta che lo voglia"».
E´ pigro?
«Abbastanza. Non ricordo chi ha detto che la pigrizia è la madre naturale del talento».
Lei dice di non amare troppo la moda. C´è più originalità o conformismo nella moda?
«Ciò che è originale fatalmente diventa conformista. Io ripeto sempre che per vestire con cattivo gusto non è necessario seguire la moda, però aiuta. L´eleganza è un´altra cosa: è creare armonia, con se stessi e con gli altri».
Creare è una parola che le appartiene?
«Ho scritto nel mio unico libro: "io sono un creatore, ma la Rosita ha creato me". E lei quando l´ha letto, ha detto: bello, sei il solito ruffiano».