SIMONETTA FIORI, la Repubblica 10/2/2011, 10 febbraio 2011
MACCHINE, COMIZI E ROCK: IL SUONO DEL ´900 - E
se la storia italiana, anziché leggerla, ci mettessimo ad ascoltarla? Immaginiamo il marziano di Hobsbawm che sbarca nella penisola e tenta di comprenderne gli ultimi due secoli non dalle fonti scritte ma dalle sue sonorità, dai suoi fragori come dai silenzi. Che colonna sonora può vantare la nostra vicenda nazionale? Abbiamo sempre gridato scompostamente o un tempo la politica era fatta a voce bassa? E il rumore di fondo della vita quotidiana: quando abbiamo perduto il silenzio, disposti oggi a comprarlo a peso d´oro (con i doppi vetri o con le vacanze in resort esclusivi)?
È un libro tutto da sentire Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del Novecento, appena pubblicato da Stefano Pivato, studioso non nuovo a incursioni in territori marginali, come l´onomastica o la canzone (il Mulino, pagg. 180, euro 14). Il tentativo è sempre quello di captare attraverso la letteratura, la musica, l´arte, il cinema – ma anche fonti inusuali come le guide del Touring, le cartelle cliniche, il dizionario delle voci, – il flusso nascosto di emozioni e sentimenti che scorre nei recessi poco esplorati della storia. Per l´Italia questa intorno al rumore è un´indagine quasi inedita – Maurizio Bettini ha studiato l´antropologia sonora del mondo antico –, mentre il filone appare più arato in America e in Francia, dove già da alcuni decenni Jacques Attali invita a riflettere sul significato sociale dei suoni, lamentando la sordità della cultura occidentale: «Non ha capito ancora che il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta».
Cosa ascoltiamo noi della nostra storia? «Se il rumore assordante è la cifra del Novecento», racconta Pivato, «sonorità più vellutate caratterizzano il secolo che precede, segnato dalla prevalenza del "lieto romore" cantato da Leopardi e della quiete domestica restituita dai pittori macchiaioli». Il frastuono, in sostanza, è corollario della modernità, che travolge ritmi e suoni della secolare civiltà contadina. Però può risultare ingannevole opporre meccanicamente un Ottocento ovattato di tonalità felpate all´evo novecentesco rombante di macchine e automobili. Perché in realtà la coppia oppositiva rumore/silenzio agisce all´interno di ogni secolo, funzionando da indicatore sociale e simbolo di weltanschauung. «Ovunque in Europa, nel XIX secolo, la società borghese innalza il silenzio a cifra distintiva, assai distante dalla molesta e democratica rozzezza delle classi inferiori». Ne sono specchio sonoro i luoghi pubblici. Ai garbati conversari da caffè, prolungamento del salotto borghese, fa eco il chiasso delle osterie. Il silenzio è borghese e aristocratico, lo schiamazzo appartiene al popolo. E oltre che norma di stile, l´arte del parlare a bassa voce è suprema virtù di genere, addicendosi alle donne composto riserbo, fuori casa ma anche in camera da letto.
Quello della sonorità della storia è certo un terreno insidioso, mancando appigli certi e sovrabbondando tracce volatili. Una costante appare il carattere dirompente del rumore, che segna discontinuità, rotture, svolte radicali. «In Italia», dice Pivato, «a rompere il monopolio del silenzio provvidero le truppe napoleoniche, portatrici di idee, fermenti, canti, balli, concioni e tamburi». Il rumore è per sua natura eversivo, associato al disordine sociale, al baccano degli irregolari – ciarlatani, menestrelli, cantastorie – al rosso delle bandiere socialiste che sul finire del secolo XIX colorano le piazze, ma anche alle citazioni acustiche dell´anarchismo che affida le proprie testate a titoli fragorosi come La bomba, il Fulmine, Il Lamento.
È sempre un grande boato a segnare il passaggio da società contadina a società industriale, introdotta dal fischio della locomotiva e dal cigolio delle macchine, con il successivo corredo di automobili, ciclomotori, aeroplani, telefoni e tram. La stessa borghesia che del silenzio aveva fatto bandiera di stile e d´elezione non esiterà nel nuovo secolo a cavalcare la fruttuosa sonorità. E all´Urlo di Munch che anticipa l´angoscia dell´evo industriale rispondono gioiosamente i futuristi con l´invenzione di scoppiatori, crepitatori, ronzatori, stroppicciatori, gorgogliatori e sibilatori. Il "secolo del rumore" è già cominciato anche se – tanto per cambiare – nella penisola il rombo dei motori non è distribuito equamente: 3.742 le automobili circolanti nel 1907 in Italia, circa la metà in Lombardia e Piemonte, appena 28 in Puglia, 8 in Calabria, 4 in Sardegna, presto ribattezzate «carrozza de fogu».
In quel condominio rissoso che è l´Italia sin dalla nascita, il rumore può essere piegato ad arma di battaglia. Se la campana è simbolo della parrocchia, alla banda musicale tocca rappresentare le liturgie della laicità. E nella guerra a colpi di suono, anche l´intonazione dei comizianti costituisce una preziosa artiglieria. Ma quando la politica rinuncia a parlare a voce bassa? Secondo Pivato, ancora una volta sarebbe stata la Rivoluzione francese a sdoganare l´urlo nel dibattito politico. «L´uso moderato della voce è già perduto nel Risorgimento e più tardi la politica di massa alzerà ulteriormente i toni». In un insolito excursus vocale dei nostri padri fondatori, ci si imbatte senza stupore nel vocione magnetico di Garibaldi e Nino Bixio, mentre può sorprendere un Cavour titubante, «impacciato nel dire la pronunzia, la frase, la lingua» (così il Dizionario delle voci di Provenzal), «la parola che gli si intoppa in bocca», «tanto da volergliene suggerire quella giusta». L´estetica della sonorità in politica raggiungerà il suo apice con Mussolini, cui corrispose l´ammutolirsi degli italiani.
E oggi? Pivato scorre rapidamente i decenni postbellici, aiutato da un nutrito repertorio di testi e simboli che include Meneghello e Parise, Volponi e Pasolini, le canzoni di Glenn Miller e di Domenico Modugno, il boogie boogie, la chitarra di Dylan, le sonorità di Nono, i ritornelli di Guccini, anche il clacson di Gassman nel Sorpasso, metafora del definitivo passaggio dalla società del silenzio a quella del rumore. Non è un caso che la gigantesca trasformazione della società italiana sia raccontata dalla parola "boom", termine alquanto chiassoso. «Il rumore è diventato il sottofondo costante della nostra esistenza», è la mesta conclusione di Pivato. «Per porvi rimedio siamo costretti a ricorrere ad altri suoni». Quella musicale è una presenza ossessiva: negli aeroporti, nei bar, nei ristoranti, negli ascensori, nei supermercati, nei suoni dei telefonini. Il mondo finirà con il fragore di un´esplosione?
Eliot preferiva immaginarne l´epilogo accompagnato da un fastidioso piagnisteo. Nella provincia italiana la fine dell´evo telecratico è annunciata dalle note della lap dance. Il marziano di Hobsbawm sembra perplesso, poi si rassegna. A ciascuno il suo rumore.