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 2011  febbraio 10 Giovedì calendario

BIKINI

Anche le canzoni fanno il loro tempo. La ragazza con la pelle dorata che ondeggia con grazia sulla sabbia di Ipanema, oggi, nonostante Tom Jobim e Vinicius de Moraes, evoca pensieri foschi, il rullare dei tamburi di una guerra diplomatico-commerciale. In realtà, non è lei il nodo rovente della crisi, ma, piuttosto, quel (poco) che indossa. Il tanga sarà anche il logo riconosciuto del Brasile, ma, ormai il marchio di fabbrica del costume nazionale si legge made in China: i bikini cinesi stanno invadendo le spiagge brasiliane. Non sono più belli o tagliati meglio, ma costano meno di quelli fatti in patria. Perché la moneta con cui vengono esportati, il renminbi o yuan cinese, è, dicono in molti, sottovalutata: c´è la politica monetaria mondiale, riassunta in quei pochi centimetri di stoffa.
La guerra del bikini è solo l´ultimo episodio dell´offensiva globale dell´economia cinese. Nelle scorse settimane, a protestare erano stati gli allevatori di polli dello Zambia, che si vedono scavalcati, sul mercato nazionale, dal più economico pennuto in arrivo da Shanghai. Ma se il brontolio arriva da un´altra delle grandi potenze emergenti, di solito alleata di Pechino nei consessi internazionali, la disposizione dei pezzi, sulla scacchiera dell´economia globale, cambia. Dalla grande crisi del 2008, il Brasile, spinto da un´economia che viaggia a pieno regime, si è visto invadere da un torrente di capitali esteri. Nonostante i tentativi di frenare l´invasione, la moneta nazionale, il real, si è apprezzata del 40% sul dollaro. La Cina ha avuto problemi analoghi ma, grazie al controllo centrale sulla valuta, il renminbi è rimasto praticamente fermo. Il risultato è che le merci cinesi, a cominciare dal bikini, costano, oggi, in Brasile, il 40% in meno di quelle made in Brazil.
I primi a drizzare le orecchie sono stati gli americani, da tempo preoccupati per le esportazioni cinesi, favorite dal cambio. Obama sarà a Brasilia fra un mese e la Casa Bianca spera di strappare al nuovo presidente, Dilma Rousseff, una dichiarazione congiunta contro la sottovalutazione del renminbi. La mossa accentuerebbe l´isolamento della Cina sulla scena monetaria mondiale e darebbe fiato a chi, anche a Pechino, sostiene che l´attuale politica favorisce le esportazioni, ma compromette, per altra via, la stessa economia nazionale. I dirigenti cinesi stanno tentando, infatti, di riportare sotto controllo un´economia surriscaldata, alzando i tassi di interesse e stringendo i lacci del credito bancario, per frenare un´inflazione che, sui beni alimentari, oscilla intorno al 10 per cento. Ma il flusso di valuta delle esportazioni continua a gonfiarsi: nelle casse della banca centrale ci sono ormai riserve per un ammontare pari a metà del Pil. Una rivalutazione del renminbi frenerebbe l´export, ma abbasserebbe i costi delle importazioni, in particolare alimentari, e frenerebbe l´inflazione.
Se in molti pensano che una rivalutazione del renminbi convenga, anzitutto, alla Cina, non tutti, però, sono convinti che gli effetti sui flussi di commercio mondiale sarebbero particolarmente significativi. Gli Usa per primi potrebbero esserne delusi. Buona parte delle esportazioni cinesi in America, in particolare quelle tecnologicamente più sofisticate, come l´iPad della Apple, anche se alla dogana risultano come esportazioni cinesi, sono, in larga misura, assemblaggio di parti precedentemente importate, dalla Corea, dal Giappone, dagli stessi Stati Uniti. Con un renminbi più forte, queste importazioni costerebbero meno, riducendo lo svantaggio che la moneta più forte comporta per le esportazioni.