Rolla Scolari, Il Fogliio 25/01/2011, 25 gennaio 2011
TUNISI CITTA’ APERTA
Nelle strade della Tunisia continuano le proteste contro il governo di transizione e contro il primo ministro, Mohamed Ghannouchi. Anche ieri la polizia ha sparato lacrimogeni per disperdere centinaia di persone radunate di fronte al palazzo del governo, nel centro di Tunisi. I giovani sfidano il coprifuoco, passano la notte nelle piazze e chiedono le dimissioni dei ministri che hanno servito sotto il regime di Zine el Abidine Ben Ali.
Questa è una settimana decisiva per il governo, per il paese, e per le sorti di quella che molti hanno definito “la prima rivoluzione araba”. Gran parte della società civile crede che la rivolta non sia completa: il rais è stato cacciato dal paese, ma i suoi uomini siedono ancora nelle stanze del potere. Le università avrebbero dovuto riprendere le lezioni ieri, ma i docenti hanno annunciato uno sciopero “illimitato”. Secondo i vertici del sindacato, più del 90 per cento delle scuole sono chiuse: gli insegnanti hanno fatto sapere che ritorneranno in cattedra soltanto quando il governo di transizione presenterà le dimissioni. Dopo 23 anni di dittatura e di regime poliziesco, i tunisini si appropriano velocemente della politica e lo fanno con entusiasmo. Da giorni, da quando una calma relativa è tornata nel paese, i cittadini si incontrano e discutono, protestano e si organizza. A Tunisi non ci sono soltanto le manifestazioni riprese dai network televisivi più importanti del mondo. Il sindacato, i partiti cancellati dalla scena, le associazioni per i diritti umani e altre organizzazioni bandite dal regime si stanno ricostituendo. Il loro obiettivo è avere un ruolo nella parte più importante della rivoluzione – la transizione democratica – e vigilare sul nuovo governo. Ogni giorno, davanti alla sede del sindacato unico, l’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), ci sono comizi, proteste e manifestazioni. Dall’edificio bianco con le imposte turchesi sventolano bandiere della Tunisia e della Palestina, assieme alle fotografie sbiadite di Farhat Hached, il fondatore dell’organizzazione. Si litiga, si urla, si discute, è una scena d’altri tempi, una pagina di romanzo d’inizio Novecento. “In Tunisia è sempre esistita una società civile, ma era soffocata e censurata”, dice Ahmed Dfifi, informatico e membro del sindacato. Sotto il braccio stringe giornali tunisini, quotidiani francesi e l’ultimo numero del settimanale Jeune Afrique. La folla attorno scandisce slogan arrabbiati e protesta contro la leadership del sindacato. Nei giorni passati, i lavoratori hanno chiesto le dimissioni di tre ministri vicini all’Ugtt: non vogliono compromessi con il nuovo governo, considerato un’emanazione del regime di Ben Ali. “Ora tutte le organizzazioni della società dovranno fare la loro rivoluzione interna – spiega Dfifi – le persone che ci rappresentano e parleranno per noi non devono più essere imposte dall’alto”.
Il giorno prima, davanti al tribunale di Tunisi, a pochi passi dalla kasbah, avevano manifestato i giudici. Con gli avvocati, i magistrati sono una forza viva della rivolta tunisina. Le toghe hanno intonato slogan contro il nuovo governo mentre la polizia sparava in aria nel tentativo di disperdere la folla. Giudici e avvocati vogliono trasferire la rivoluzione dalle piazze alle aule dei tribunali. “Ho chiamato il primo ministro Ghannouchi per dirgli che non possiamo più operare con una procura in cui siedono gli stessi uomini che c’erano sotto il regime”, diceva al Foglio, pochi giorni fa, il presidente del consiglio forense, Abderrazak Kilani. Sotto le sue finestre, la protesta dei giudici proseguiva senza soste.
Nelle ore successive alla fuga di Ben Ali, molte figure e associazioni che appartenevano al regno dell’illegalità sono tornate operative, sono riemerse dalla segretezza. La società civile esisteva anche prima ma era stata arginata, “l’avevano allontanata dal popolo”, spiega Sihem Bensedrine. Giornalista di Radio Kalima, un’emittente illegale negli anni del regime, e fondatrice del Consiglio nazionale per le libertà in Tunisia, la donna è tornata dall’esilio pochi giorni fa. Per ricostruire. “Eravamo pronti – dice al Foglio – E tra noi sono sempre esistite le comunicazioni. Ora ci stiamo preparando a canalizzare le richieste della popolazione, mantenendo la legalità”. Il vecchio regime resta presente nelle istituzioni e nell’apparato di sicurezza. Per questo, “la transizione è la sfida più grande – dichiara Bensedrine – Stiamo lavorando per creare un consiglio della rivoluzione che possa raccogliere tutte le forze vive del paese che hanno fatto la rivoluzione, dal sindacato ai partiti alle organizzazioni non governative”. Il nuovo organo dovrebbe avere le prerogative legali per chiedere l’istituzione di una costituente e lavorare assieme al governo a una nuova Carta fondamentale. “Si tratterà di un’associazione di cittadini capace di controllare il governo durante la transizione. Prima, però, vogliamo la dissoluzione di questo esecutivo”. Stanno lavorando al progetto le organizzazioni per i diritti umani, l’ordine degli avvocati tunisini, i partiti scartati dalla vita politica sotto il regime di Ben Ali, come quello di Moncef Marzouki, i comunisti di Hamma Hammami, gli islamisti di Rachid Ghannouchi, i rappresentanti delle regioni e dei giovani, spiega Bensedrine. Si lavora su ogni fronte.
I tunisini vogliono avere uno spazio nelle nuove istituzioni purgate dai vecchi volti, ma intendono anche saperne di più su 23 anni di corruzione, non soltanto politica, che hanno segnato il paese. La “Famiglia”, il clan Ben Ali e quello della moglie Leila Trabelsi, controllava gran parte dell’economia nazionale. Alya Cherif Chammari, avvocato della Corte costituzionale di Tunisi, sta lavorando assieme ad altre tredici persone alla costituzione di una rete nazionale che indaghi sulla corruzione. “Presenteremo il nostro progetto la settimana prossima – dice – Siamo un gruppo di avvocati, giornalisti, blogger, manager d’impresa, privati cittadini. Vogliamo avere un ruolo presso le istituzioni per indagare sui casi di corruzione che non siano soltanto legati alla famiglia Trabelsi. Vogliamo dire al governo che siamo vivi e vigili”.
L’esecutivo di transizione ha annunciato la nascita di alcune commissioni d’inchiesta. Una si occuperà di fare luce sulle violenze delle forze dell’ordine durante le ultime manifestazioni; un’altra ha come obiettivo la corruzione della Famiglia. Restano, però, molti dubbi sull’indipendenza di queste istituzioni, che lavoreranno per un governo guidato da ministri dell’era Ben Ali. “Non si può fare il nuovo con il vecchio – continua l’avvocato Chammari – Per costruire una democrazia dobbiamo avere garanzie che le persone incaricate di riformare le istituzioni non appartengono al passato. Serve un esecutivo più piccolo, formato da tecnici. Non vogliamo una caccia alle streghe, ma l’allontanamento progressivo di quelle personalità che hanno aiutato l’ex presidente a costruire il regime”.
L’alternativa c’è, spiega la signora: ci sono tutte quelle correnti che sono da sempre in Tunisia e quelle che si trovano in esilio e che, ora, non sono più costrette ad agire in segreto. Ci sono associazioni per i diritti umani, movimenti di donne, ci sono i partiti e i professionisti. “Ma occorre formare una costituente reale che raggruppi tutte le forze vive della rivoluzione”. Ora che televisioni e giornali tunisini iniziano a parlare di attivisti, militanti e dissidenti allontanati dal paese o dalla vita politica, la popolazione sta imparando a conoscere i volti nuovi della Tunisia. Se la mattina del 14 gennaio, quando Ben Ali era ancora al potere, le tv e i giornali parlavano delle manifestazioni come di “raggruppamenti violenti”, poche ore dopo la fuga del rais i toni erano completamente cambiati.
L’emittente araba al Jazeera ha avuto un ruolo centrale nella rivolta: mentre Tv7, il canale di stato tunisino, trasmetteva cartoni animati, su al Jazeera i tunisini potevano vedere l’estensione del dissenso, scoprire le manifestazioni, ascoltare le voci degli attivisti in esilio. Fra i volti tunisini più noti agli spettatori della tv con sede in Qatar c’è Moncef Marzouki, fondatore del Congresso per la Repubblica, un movimento fuorilegge nell’era Ben Ali. E’ tornato a Tunisi martedì scorso, dopo nove anni di esilio a Parigi, accolto all’aeroporto della capitale da moltissime persone. Senza neppure passare da casa ad appoggiare le valigie, Marzouki ha annunciato la propria candidatura alle presidenziali ed è partito subito per Sidi Bouzid, la città del giovane ambulante che si è dato fuoco in dicembre, innescando le proteste. E’ sorridente e rilassato quando racconta, dietro gli occhiali passati di moda, che la società civile tunisina è sempre rimasta attiva, anche se obbligata ad agire sotto la superficie. “Nel primo anno dopo la fine del regime dello scià, nel 1979, in Iran sono stati pubblicati diecimila libri – ha detto – Impossibile scriverne tanti in così pochi mesi. Questo significa che i libri c’erano già, ma non potevano essere stampati. Lo stesso sta accadendo qui in questi giorni: resteremo tutti meravigliati dalla ricchezza del nuovo territorio politico tunisino”. Il tempo delle idee è finito, annuncia Marzouki, ora comincia il tempo dell’organizzazione. “Tutti in Tunisia si stanno muovendo in queste ore per ricostruire. Fra tre mesi avremo davanti agli occhi un paese completamente diverso. Ma era già tutto pronto”.
La piazza ha costretto alle dimissioni Moncer Rouissi, il ministro degli Affari sociali, che ha lasciato ieri. E il capo delle Forze armate, Rachid Ammar, considerato uno degli uomini chiave nel futuro del paese, ha assicurato il proprio sostegno alle nuove istituzioni tunisine. “L’esercito rispetterà la legge e difenderà la rivoluzione”, ha detto. Anche Ammar ha servito sotto il regime di Ben Ali. Per sua fortuna, il dittatore lo ha destituito nei suoi ultimi giorni a Tunisi.