Massimo Lugli, la Repubblica, cronaca di Roma 9/2/2011, 9 febbraio 2011
Nei campi della vergogna Rottami, minacce e sorrisi ecco la Calcutta della Magliana - Una ragazza magra come uno stecco che sbuccia un grosso cavo elettrico per tirare fuori il rame come se stesse scortecciando un bastone
Nei campi della vergogna Rottami, minacce e sorrisi ecco la Calcutta della Magliana - Una ragazza magra come uno stecco che sbuccia un grosso cavo elettrico per tirare fuori il rame come se stesse scortecciando un bastone. «Questo per mangiare» sorride in uno scintillare tenue di denti d´oro. Qualche metro più avanti, un gruppo di uomini sta caricando rottami di ferro su un vetusto camion azzurrino che sembra spuntato da una mostra di modernariato. «Il ferro e l´alluminio li vendiamo lì - spiega Danjo, 32 anni, due figli di 15 e 11 rimasti in Romania, indicando lo sfasciacarrozze che incombe, con le sue torri di carcasse metalliche, sullo scenario deprimente del campo - per un carico intero ci pagano dai 50 ai 70 euro, dipende dal peso. Con quei soldi ci campiamo una settimana tutti quanti». E sorride anche lui, un bel sorriso aperto, solare, incredibilmente felice. Riva Pian Due Torri è una stradina che si dipana dall´autostrada Roma-Fiumicino, all´altezza della Magliana. Scendi a piedi per qualche centinaio di metri e sei a Calcutta. Peggio, perché Calcutta, tra odori, babu ed esotismo, ha qualcosa di poetico. Qui, in uno dei tanti microcampi eterni, buttati giù a scadenze regolari e sempre risorti, c´è solo uno squallore, una miseria, una sporcizia che vanno dritti all´anima. Le casupole, otto o nove in tutto, cascano a pezzi, sembrano coperte fatte di stracci cuciti assieme alla bell´e meglio: cubetti sbilenchi di legno, cartone, compensato, lamiera, lastre di plastica e qualche toppa di stroffa a tappare i buchi. Un ragazzino vispo, incrostato di sudiciume, saluta da un vecchio carrello, uno dei mezzi di fortuna con cui gli uomini, che arrivano di continuo, caricano i rottami metallici. Ciclisti superaccessoriati frusciano sulla pista ciclabile, senza degnare il campo di un´occhiata: due mondi che si sfiorano senza capirsi e senza volersi capire. Qualche volta va peggio. «Ogni tanto ci sono dei ragazzini che, dalla pista, ci insultano, ci urlano parolacce ma le parole non fanno male» spiega il cugino di Danjo, 24 anni, tutto vestito di nero, identico al parente. Anche lui si è sposato quasi bambino: 14 anni lo sposo, 13 la sposa. «In Romania diciamo che da noi a 15 anni sei un uomo e qui in Italia, a 20 anni, hai appena aperto gli occhi». E ride. Quaranta persone, tra uomini e donne, venuti tutti dalla città di Krajova e tutti imparentati tra loro. «Siamo una famiglia, se mangia uno mangiano tutti, se uno digiuna, pure» spiega un ragazzo sulla trentina, massiccio e olivastro, con una vecchia cicatrice sulla guancia. Una donna sta cucinando ali di pollo fritte nell´olio su un fornello di fortuna, due sbarre di ferro poggiate su un paio di mattoni con un fuoco di assi di legno scheggiate a colpi d´ascia. Sotto i pilastri del viadotto, una fila di tende fatte di coperte e lenzuola e qualche misero giaciglio: i paria tra i paria, gli sventurati che non hanno rimediato neanche una baracca. «Noi siamo qui da 7 anni - continua Danjo - siamo venuti in pullman, 300 euro a biglietto. Siamo sempre rimasti a Roma. L´accampamento ce l´hanno buttato giù parecchie volte ma torniamo sempre. E dove andiamo? Nessuno ci ha mai offerto un´altra possibilità: un campo attrezzato, una casa, un residence... Le tendopoli? Magari. Dove ci si iscrive?». Salutano, gli zingari romeni, fanno ciao con la manina all´intruso che viene da un altro mondo. Ma prima di accomiatarci Danjo, l´uomo che sorride, si concede una frecciata. «Molti giornalisti vengono qui e raccontano che ci vogliono aiutare. Non è vero: fate solo il vostro lavoro. Non c´è niente da male ma è così. Almeno voi non avete raccontato balle, lavorate e basta». Ciao, Danjo. Molto diversa l´accoglienza al campo di via Magliana Vecchia, pochi chilometri di distanza ma un altro universo. Una croce di legno inghirlandata di fiori di plastica ricorda Mihaiu Ionu Luis Fernando, 4 anni, morto bruciato nella sua baracca nel dicembre del 2009. Pile di pneumatici a terra, immondizia, qualche auto carbonizzata. Un posto di ladri di rame e di auto, avvertono quelli della municipale che la sanno lunga. In fondo a una pista di fango si intravedo parecchi furgoni e qualche roulotte, una sorta di parcheggio permanente. Non ci arriveremo mai. Un uomo grasso e torvo, con l´aria del capo, si fa avanti minaccioso seguito da un gruppo di adolescenti dall´espressione aggressiva e da una processione di donne che urlano maledizioni. «Che volete? Non ci serve niente, fuori di qui...», sbraita. Tentiamo di insistere coi soliti argomenti ma non funziona. «Io vi spacco la testa». Poi si china, raccoglie una sega arrugginita, ci ripensa e impugna un grosso paio di cesoie da giardiniere. Dietro front e via. A un fotografo, qualche ora fa, è andata peggio: anziché le cesoie si è trovato davanti a una pistola. La ritirata strategica è accompagnata dagli ultimi insulti. No, i rom non sono tutti uguali. Perché mai dovrebbero esserlo?