Stefano Cappellini, il Riformista 8/2/2011, 8 febbraio 2011
IL FUTURO NON PARTE DA QUI
Di Silvio Berlusconi presidente del Consiglio - della sua inazione, delle sue reticenze, delle sue svolte a scoppio ritardato - s’è stufata una larga parte del paese. La maggioranza? Non è semplice dirlo: solo le elezioni potranno dare una risposta certa. Ma di certo mai come in questa fase il fronte delle opposizioni è parso così folto, oltre che composto da pezzi importanti della vecchia constituency berlusconiana: la nascita del Terzo Polo di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, le critiche di Confindustria, gli imbarazzi della Chiesa, gli interrogativi che attraversano i vertici e la base leghista testimoniano che la presa di Berlusconi sulla politica e sulla società s’è fatta flebile e in molti si sono ormai convinti che il premier rappresenta il principale ostacolo per qualsiasi serio tentativo di ripartenza, che avvenga da destra (com’è più probabile) o da sinistra.
Il Cavaliere ha però ancora un formidabile vantaggio sui suoi avversari. Vantaggio che è ancora più evidente dopo i fatti del fine settimana, in particolare gli incidenti di Arcore e la manifestazione di Libertà e giustizia a Milano con Roberto Saviano protagonista. Riassunta in poche parole, la questione è la seguente: se si torna al voto in tempi rapidi - diciamo a maggio o giugno - a Berlusconi può facilmente riuscire di dimostrare che è ancora lui l’unico detentore di un progetto per il paese. E che dall’altra parte c’è il caos, in senso metaforico e forse non solo.
Il problema da risolvere è ovviamente dare una consistenza non solo elettorale all’eventuale patto politico delle opposizioni, più noto sui giornali come Santa Alleanza. La missione costituente è un argomento valido a giustificare il fatto di mettere insieme forze che, per tradizione e orientamento, dovrebbero militare su fronti opposti: riscrivere la Costituzione presuppone per definizione l’abbattimento temporaneo dei recinti. Ma nessun popolo - nemmeno quello italiano stremato da tre lustri di berlusconismo - s’infiamma e magari cambia voto solo per l’urgenza di una nuova Carta. Serve qualcosa in più. Anzi, molto di più. Serve un’idea di paese, un orizzonte da riassumere in pochi ed essenziali punti, l’esatto opposto del programma-mostro di centinaia di pagine partorito dall’Unione cinque anni fa, dove c’era dentro tutto perché in fondo si sapeva che non si sarebbe fatto niente. Servono dei sacrifici, perché può avere un suo fascino l’idea del tutti insieme, ma se si fa a meno di qualcuno meno adatto e affidabile (per esempio Antonio Di Pietro) si rafforza la credibilità dell’operazione. E occorre al più presto il nome del candidato premier, perché va bene raccontarsi che non è più il tempo dei padri padroni e dei maghi taumaturghi. Succede però che, in attesa di un nome credibile per la guida dell’opposizione, le leadership già in campo - Nichi Vendola in testa - convincono un numero sempre crescente di elettori che proprio la taumaturgia è l’unica soluzione. Da quanto punto di vista il Pd di Pier Luigi Bersani e i suoi potenziali alleati sono ancora molto indietro. Di gente disposta a votare la Santa Alleanza ce n’è tanta. E a molti è sufficiente un motivo: la gigantesca, ciclopica inopportunità che Berlusconi rimanga a Palazzo Chigi. Ma di motivi ne occorrono altri per sperare di vincere e governare.
Mentre la politica stenta ad offrire tali motivi, altri si organizzano in proprio. Lo ha fatto Saviano a Milano. Lo ha fatto il popolo viola manifestando ad Arcore. Lo fanno - dialogando a modo loro sul Corriere della sera di ieri - anche Adriano Celentano e Beppe Grillo (in un crescendo di deliri populisti che da solo potrebbe bastare a convincere un elettore indeciso che Berlusconi, in fondo, non è poi così dissennato).
È bello che persone e associazioni si organizzino autonomamente dai partiti per dare voce alla protesta e all’insoddisfazione. Il guaio è se questa voce rischia - per colpa della politica, naturalmente, non delle persone - di passare per “la” voce dell’opposizione. Si può gioire della folla riunita al Palasharp per Saviano, ma non si può che rabbrividire all’idea che in molti - sì, in molti - considerino lo scrittore un potenziale candidato premier. E, si badi bene, non per vecchi e triti ragionamenti sulla superiorità della politica sulla società civile - che evidentemente in questo momento non c’è, in senso letterale - ma perché nelle parole di Saviano, che dice di voler offrire «un sogno al paese», non c’è traccia dei contenuti di cui il fronte anti-berlusconiano ha bisogno per sfuggire all’effetto armata brancaleone. Effetto temuto pure da Saviano, il quale ha infatti spiegato dal palco che «troppo spesso i valori che ci fanno stare insieme sono coperti dal prevalere dell’essere contro, dell’essere “anti”. Siamo stati bravi a comunicare ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Ma ora è giunto il momento di dire ciò che siamo e ciò che vogliamo». Poi, però, al momento di spiegare ciò che siamo, Saviano non dice nulla. Anzi, dice che “siamo” onesti. E per sfuggire a un’altra obiezione frequente verso una certa sinistra, quella di elitismo minoritario, spiega che il popolo degli onesti ha sbagliato negli anni scorsi a rappresentarsi come una minoranza in un paese di criminali (che in quanto tali, è il logico corollario, votano per i propri simili). Gli onesti, invoca Saviano, devono prendere atto di essere maggioranza.
Saviano è molto acerbo. Forse non è capace di rendersi conto da solo che nel riproporre l’idea di un paese diviso tra onesti e criminali, seppur declassando questi ultimi a minoranza, precipita nel peggior modo di “essere contro”, in una forma di manicheismo assoluto e astorico. La tesi diventa che una avanguardia di manigoldi ha sequestrato il paese, e non per complicità degli altri - se così fosse, salterebbe il ragionamento sulla maggioranza di onesti - ma in sostanza per disinformazione. Insomma, se Gomorra fosse uscito prima, e gli show di Fazio andati in onda per tempo, oggi magari saremmo in un’altra Italia. La proposta politica che ne consegue, non molto originale in verità, è che si tratti di radunare tutte le fedine pulite “contro” il malaffare. Per fare cosa - a parte rispettare il codice penale - non è dato sapere.
Ora, lasciamo stare i già convinti, quelli che “tutto tranne che Berlusconi”. Ma per molti altri succede questo: che uno ascolta Saviano, e magari gli piace pure, poi ascolta il premier, e magari non gli crede nemmeno, ma poi si convince che una proposta per governare il paese c’è solo nelle parole del secondo e che dall’altra parte c’è al più un’invettiva morale - sacrosanta in sé, per carità - o l’esuberanza di una piazza non governata come quella del popolo viola, che prima porta la protesta sotto villa San Martino e poi casca dal pero se la manifestazione finisce sui media per le intemperanze dei centri sociali. È questo il rischio che la politica dovrebbe scongiurare, offrendo una proposta che tenga conto delle istanze di Saviano e del suo popolo, anziché da queste istanze lasciarsi eterodirigere verso la sconfitta di tutti, partiti e movimenti.
Qualcuno sottovaluta l’antagonista: è evidente che le nuove proposte di Berlusconi su fisco, crescita eccetera eccetera sono solo chiacchiere. Ma si sbaglia a guardare con sufficienza all’operazione “responsabilità” che Giuliano Ferrara ha cucito intorno al premier. Al Cavaliere, nonostante i disastri di quest’ultima esperienza di governo, potrebbe bastare il nuova mantra per chiedere e ottenere un nuovo mandato. Soprattutto se si scontrerà con una opposizione capace di autoconvincersi che «il futuro» sia nato al Palasharp di Milano.