Massimo Piattelli Palmarini, Corriere della Sera 08/02/2011, 8 febbraio 2011
E IL CERVELLO IMPARO’ LA REGOLA DELLE FANFOLE
La frase che state leggendo contiene dei blocchi al suo interno. Anzi, blocchi entro blocchi. «La frase» è uno di questo blocchi, all’interno del più largo blocco «la frase che state leggendo» . Molto importante è il fatto che questi blocchi sembrano, solo sembrano, essere allineati uno dopo l’altro, come i vagoni di un trenino, ma sono in realtà da noi mentalmente organizzati secondo relazioni gerarchiche di dominanza e sudditanza. Proviamo, infatti, a inserire dei modificatori. Questo è un metodo portato a grande raffinatezza dal linguista italiano Guglielmo Cinque dell’Università di Venezia, esaminando molte lingue e dialetti, estraendo fattori comuni a tutte e calibrando le sottili dipendenze gerarchiche tra i modificatori e gli altri elementi sintattici.
Scrivo: «La frase che state ora leggendo contiene dei blocchi al suo interno» . «Ora» si riferisce alla vostra lettura. Invece, se scrivo: «La frase che state leggendo contiene ora dei blocchi al suo interno» si capisce che prima non li conteneva. «Non state mica leggendo» nega la lettura, mentre «La frase che state leggendo non contiene mica dei blocchi» nega, invece l’esistenza dei blocchi. Questo dato fondamentale, cioè che la sintassi governa, entro le frasi, blocchi tra di loro organizzati in modo strettamente gerarchico è noto ai linguisti, ma c’è ancora oggi chi ne dubita, gabellando che, in realtà, la sintassi consista in relazioni lineari di tipo statistico, con accostamenti tra parole più probabili di altri accostamenti.
Un’importante conferma, invece, della solida realtà mentale dei blocchi e della loro gerarchia viene pubblicato su «Proceedings of the National Academy of Sciences Usa» da un’équipe di noti neurobiologi cognitivi francesi: Christophe Pallier, Stanislas Dehaene e Anne-Dominique Devauchelle. Hanno mostrato, mediante la risonanza magnetica funzionale, che il nostro cervello si attiva diversamente quando riceviamo delle frasi complesse rispetto a quando riceviamo delle liste di parole della stessa lunghezza. Inoltre, l’attivazione delle aree cerebrali deputate al linguaggio si attiva sempre più intensamente, mano a mano che la frase diventa sintatticamente più complessa, cosa che, invece, non succede se la «bruta» lista di parole si allunga progressivamente. Come se non bastasse, l’attivazione cerebrale specifica e la sua progressiva crescita si verificano anche quando ci vengono fornite frasi strane con parole prive di senso.
In italiano, un esempio effettivamente usato in passato dal linguista Andrea Moro, in analoghi studi di attivazione cerebrale è: «Il gulco gianigeva le brale» . Nessuna idea di cosa sia un gulc, né di cosa siano le brale e nemmeno di cosa sia gianigere, ma la frase è sintatticamente perfetta. Il nostro cervello reagisce di conseguenza. In inglese, queste strambe frasi si chiamano «Jabberwocky sentences» dal titolo di una nota poesia di Lewis Carroll (l’autore di «Alice nel paese delle meraviglie» ) interamente composta da tali frasi. L’equivalente italiano sono le fànfole del delizioso libretto del compianto Fosco Maraini.
Chiedo un commento sull’uso di queste strane frasi ad Andrea Moro, professore alla Scuola superiore universitaria di Pavia e autore di un articolo pubblicato su «Proceedings» , accanto a quello degli studiosi francesi. «Due cose: intanto che non è il senso a tenere insieme le parole in modo coerente. Inoltre, che siamo preparati a manipolare parole cui non siamo mai stati esposti prima» . Quindi, frasi come queste simulano nell’adulto una situazione onnipresente nel bimbo che acquisisce la sua lingua materna.
Moro aggiunge: «Frasi tipo Jabberwocky funzionano come una specie di tracciante naturale per scoprire le venature che costruiscono le regole della sintassi, permettendoci di astrarre rispetto ad altre componenti, come il senso» . Gli autori francesi e Moro citano un lavoro pionieristico di Noam Chomsky del 1957 e vi si riconnettono in piena approvazione. Nel frattempo, tanti dati e teorie linguistiche, sia di Chomsky sia di centinaia di altri linguisti, Moro e Cinque compresi, hanno convalidato la realtà della gerarchia sintattica.
Chiedo un commento su questo tipo di conferme neurobiologiche allo stesso Chomsky. Mi risponde: «Tali interessanti esperimenti offrono una nuova fonte di conferme a conclusioni che erano state già ben corroborate su basi diverse. La convergenza di risultati ottenuti da fonti distinte rafforza pure la validità dei metodi di indagine» .
Faccio l’avvocato del diavolo. Occorrevano proprio dati sul cervello per rendere queste ipotesi scientifiche? Non si cade in quello che Carlo Umiltà e Paolo Legrenzi bollano, in un loro felice libretto, come «neuromania» ? Moro risponde: «Che la struttura delle frasi sia gerarchica già lo si sapeva ed era del tutto prevedibile che questo si associasse a una specifica rete neuronale. La vera novità delle scoperte è che, per la prima volta, capiamo come e perché le grammatiche non possono variare a piacere, ma sono in qualche modo vincolate dalla struttura neurobiologica del cervello.
Questo, combinato con il dato che tutte e solo le lingue umane hanno tale struttura gerarchica, propone scenari nuovi sull’evoluzione del linguaggio e della nostra specie» . Fondendo in una sola frase i lavori di Chomsky, Cinque, Moro e dei neuroscienziati francesi, dirò: non è mica inevitabile e mi duole apertamente concederlo che anche questi dati neuronali spazzino via dalla scena linguistica le malaugurate supposizioni che la grammatica sia un fatto esclusivo di relazioni statistiche. Chiaro? Se non lo è, fatevi infilare in un apparato di risonanza magnetica funzionale.
Massimo Piattelli Palmarini