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 2011  febbraio 08 Martedì calendario

ARIANNA TROVA IL FILO D’ORO SUL WEB. IL SUO SITO CEDUTO PER 315 MILIONI —

Reduce dalla disastrosa fusione con Time-Warner e alla ricerca di una nuova identità come «media-company» con quasi mille giornalisti che produce contenuti informativi di varia natura, Aol ha annunciato ieri l’acquisto dell’Huffington Post, il sito di informazione politica di maggior successo d’America. Per Arianna Huffington, che iniziò la sua avventura editoriale il 9 maggio del 2005 insieme a Kenneth Lerer, un manager che aveva lasciato proprio la declinante America On Line per scommettere su «lady blog» , è l’apoteosi: incassa, insieme ai suoi soci, 315 milioni di dollari, vede riconosciuto il grande valore di un’iniziativa che era partita come un hobby elitario e un po’ artigianale, e diventa capo di tutta l’area informativa di Aol: una galassia di blog, siti di informazione specialistica (come la «bibbia» tecnologica TechCrunch) e giornali digitali di informazione locale acquistati dal gruppo che sta cercando di reinventarsi come una specie di «superportale» . Aol ha, infatti, gradualmente perso la sua vecchia fonte di reddito come provider del collegamento a Internet. Gli abbonati si sono ridotti a 4 milioni dai 35 milioni di nove anni fa. E continuano a calare. L’operazione è spettacolare e audace, perfino temeraria, come ammettono i suoi stessi protagonisti: il 40enne Tim Armstrong, arrivato meno di due anni fa da Google ad America On Line con la missione di salvare la compagnia dandogli una nuova anima, dice che, acquistando l’Huffington Post, conta di avere una crescita del traffico e delle entrate pubblicitarie «non incrementale ma esponenziale: 1 più 1 non deve fare 2 ma 11» . Sulla stessa lunghezza d’onda Arianna: «È come scendere da un treno in corsa per salire su un aereo che è già in volo» . Le opportunità sono enormi: il sito di Arianna, cresciuto tumultuosamente negli scorsi anni fino a entrare nella top 10 dei siti di informazione globale, insidiando anche il New York Times per numero di utenti unici, potrebbe crescere ulteriormente come autorevolezza e diffusione ora che, uscito dalla fase artigianale, è incastonato in una società «mainstream» . Ma ci sono anche molte incognite, come dimostra il fatto che la Borsa ha salutato l’affare facendo calare del 3 per cento le già depresse quotazioni di Aol. Intanto ci si chiede come cambierà il sito e il ruolo di Arianna nella nuova conglomerata dell’informazione. Il Post manterrà la stessa impostazione sbarazzina col marchio ideologico della sinistra radicale? Per quanto tempo resterà Arianna? Farà la direttrice manager anche delle altre testate? E i quattromila collaboratori, che (insieme a un centinaio di giornalisti stipendiati) hanno fin qui scritto gratis, continueranno a farlo ora che sanno di aver reso ricca col loro lavoro la fondatrice del sito? «Lady blog» , secondo i patti, dovrebbe restare almeno tre anni, ma le altre testate del gruppo già mugugnano, lei probabilmente non ha voglia di incatenarsi a una scrivania e ha messo le mani avanti: «Questa è la tappa conclusiva della mia carriera» di direttrice. È evidente, comunque, che i siti politici di Aol sono destinati a svanire ora che arriva una testata forte di 25 milioni di visitatori unici al mese e con una forte visibilità anche internazionale. Adesso Aol si presenta come una nuova corazzata dell’informazione digitale, con 117 milioni di visitatori al mese negli Usa e 270 a livello globale. Ma già arrivano attacchi da tutte le direzioni. Il Daily Beast parla di matrimonio «disastroso» tra lo pseudogiornalismo di Aol e un Post che ha molti lettori ma poche entrate pubblicitarie. Può dipendere dal fatto che, secondo alcuni, Tina Brown, l’altra «lady blog» che dirige il Beast, avrebbe cercato senza successo di vendere la testata a CompuServe, un braccio di Aol. Anche le critiche di David Carr sul sito del New York Times possono riflettere in parte le preoccupazioni dei gruppi editoriali tradizionali per la crescita di questa nuova «corazzata del giornalismo digitale» . Resta il fatto che, dal punto di vista professionale, Aol chiede agli estensori dei suoi articoli di usare un linguaggio costruito in modo da far salire i testi nei ranking dei motori di ricerca. Il che significa privilegiare un linguaggio banale e ripetitivo rispetto alle storie più originali e al giornalismo investigativo. C’è, poi, l’incognita economia: la rivoluzione di Armstrong fin qui non ha arginato il declino del fatturato di Aol (calato drasticamente anche nel quarto trimestre 2010), mentre l’atteso boom delle entrate pubblicitarie stenta a manifestarsi. Molti sostengono che la pubblicità online crescerà, ma non al punto di sostenere le spese di organizzazioni costose e complesse come Aol, che offrono un servizio gratuito. E anche l’Huffington Post, per elevare la qualità del suo prodotto, si è dato una struttura giornalistica estesa e costosa come quella di una testata tradizionale. Armstrong ha detto che ce la farà, ma ha rinviato al 2013 l’appuntamento col profitto.
Massimo Gaggi