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 2011  febbraio 05 Sabato calendario

L’invettiva di Pasquale Villari

Gli analfabeti ci seppelliranno - Era appena stata fatta l’Italia. Vale la pena di risentire un celebre passo di quegli anni, la relazione di Pasquale Villari, Di chi è la colpa? O sia la pace e la guerra , 1866: «V’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale, e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi». Di lì a non molti anni un illustre glottologo, Graziadio Isaia Ascoli, torna sul tema nel famoso Proemio (1873) all’ Archivio glottologico italiano . Mette in rilievo il fatto che nessun paese ha avuto sin dalle Origini, e ancora in seguito, scrittori eccelsi come i nostri; abbiamo avuto i più grandi «maestri» - dice -, ma «la greggia dei veri discepoli è sempre mancata»; quei grandi formano come «dei punti luminosi, che brillano isolati e spesso fuori di riga», «duci» senza «legioni fra la propria gente», «duci italiani» che «hanno cresciuto e guidato, non legioni paesane, ma legioni straniere»; «nella scarsità del moto complessivo delle menti, che è a un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e nelle esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto sentimento della forma, s’ha [...]la ragione adeguata ed intiera del perché l’Italia ancora non abbia una prosa o una sintassi o una lingua ferma e sicura». Lucidamente segnala il «doppio inciampo» che ha ostacolato o rallentato l’unificazione linguistica: «la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma». Nel nostro paese c’era per l’appunto una troppo grande distanza tra il raffinato formalismo dei piani alti e il particolarismo dialettale dei piani bassi: un ricco e bellissimo italiano d’élite opposto ai dialetti. Pochi arcadi da un lato e milioni di analfabeti dall’altro, squilibrio culturale che sembrava insormontabile per raggiunge l’effettiva unità linguistica di livello medio. A 150 anni dall’Unità, l’abbiamo raggiunta? Certamente, perché la quasi totalità degli italiani parla oggi italiano. Ma il problema torna ad essere, oggi come allora, non l’«apprendistato» della parola, ma l’educazione delle menti, e la «scarsa densità culturale» del nostro paese, come Ascoli scriveva. Ora l’italiano è, dopo 150 anni, la lingua di tutti. Un traguardo. Ma di questo italiano non siamo tutti padroni e signori. Lo teniamo spesso a mezzo servizio, troppi non sanno ancora avvantaggiarsene a tempo pieno, lo capiscono a metà. Di qui i problemi non solo del comunicare, ma del poter essere manipolati.