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 2011  febbraio 08 Martedì calendario

Il cervello si può mantenere giovane - Rallentare l’invecchiamento del cervello? Certo che si può: basta fargli fare ginnastica

Il cervello si può mantenere giovane - Rallentare l’invecchiamento del cervello? Certo che si può: basta fargli fare ginnastica. E’ una bella soddisfazione quando la scienza conferma un fenomeno, positivo, a cui già davamo credito d’istinto, e non solo per aver visto Nicole Kidman lambiccarsi con i giochi elettronici negli spot pubblicitari. Ecco dunque che una ricerca italiana, dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico «Fondazione Santa Lucia di Roma», dimostra che lo studio, inteso come scrivere, leggere, applicarsi a qualsiasi interesse intellettuale che stimoli passione e curiosità, ha un’influenza decisiva sull’integrità del cervello, dal punto di vista sia strutturale che funzionale. Gli autori della ricerca, pubblicata dalla rivista «Human Brain Mapping», hanno scoperto, mediante sofisticati esami di risonanza magnetica su un campione di 150 soggetti sani tra i 18 e i 65 anni, che un’istruzione scolastica più lunga, e dunque una maggior abitudine alla concentrazione mentale, è in diretta correlazione con la compattezza strutturale di certe zone del cervello: in particolare dell’ippocampo, l’area che presiede alla funzione della memoria a lungo termine e che è tra le prime a deteriorarsi quando s’instaura l’Alzheimer. Insomma, allo studio si fa il callo, e lo studio serve eccome: magari non a trovare un posto di lavoro, in questi anni incerti per l’occupazione intellettuale, ma sicuramente a mantenersi lucidi e attivi. Ma c’è di più, e di meglio: se chi ha un livello d’istruzione superiore possiede in qualche modo un patrimonio mentale più vasto, che viene eroso più lentamente dalla senescenza, ed è quello che gli esperti chiamano «riserva neuronale», tutti sono in grado di implementare il proprio benessere, mantenendosi elastici e in esercizio, non solo con lo stretching per le articolazioni ma anche con quello per le sinapsi cerebrali. In maniera analoga, c’entra il lavoro che si è svolto prima della pensione, e più è stato stimolante e meglio è. Ma non è mai troppo tardi per recuperare: basta, dopo la fine della vita professionale, non abbandonarsi passivamente al declino ma tenersi curiosi e attenti. Il professor Carlo Caltagirone, direttore scientifico della Fondazione Santa Lucia, autore della ricerca con Fabrizio Piras e Gianfranco Spalletta, si dice «confortato, perché tutto ciò ci permette di avere una posizione meno nichilista. La decadenza cognitiva non è ineluttabile». La grande paura si chiama demenza: 35 milioni e 600 mila casi nel mondo, di cui un milione in Italia (600 mila solo di Alzheimer), con un costo medio annuo di 60 mila euro a carico della famiglia del malato, e incalcolabili ferite emotive. Un drago temuto da chi, per i progressi della medicina, può aspirare magari ad arrivare ai cent’anni, ma non è sicuro di arrivarci lucido. Ma è un drago che oggi diventa un poco meno minaccioso: e la formula magica si chiama «fornitori di resilienza». Cioè le tecniche e gli strumenti, semplici e applicabili nella vita quotidiana, che ci permettono di restare un po’ più a lungo noi stessi. *** INTERVISTA Anche la passione combatte l’Alzheimer Il geriatra Cravello: nesuna attività intrapresa a freddo può essere utileLuca Cravello, geriatra, è ricercatore presso l’Icss Santa Lucia di Roma. Dottore, lo studio appena pubblicato dà nuove speranze alla lotta contro la demenza. Dunque, nell’età giovane-adulta, con l’attività intellettuale ci si prepara a una vecchiaia più serena? «E’ così: la scolarizzazione permette di costituire un deposito che consentirà, negli anni a venire, di affrontare meglio il deficit cognitivo. La ricerca ha il merito di aver evidenziato il luogo fisico che è sede di questa riserva cognitiva, e cioè l’ippocampo». Come può rimediare chi non ha fatto conto su una scolarizzazione alta, o anche media? Ci sono tecniche o strategie? «Esistono molti esercizi semplicissimi che aiutano a migliorare la memoria. Per esempio, noi invitiamo i pazienti più anziani a stabilire un ordine routinario alle proprie attività e ad assegnare un posto a ogni cosa. Se tendo a non ricordarmi dove ho messo le chiavi, meglio stabilire per loro un luogo fisso. Allo stesso modo, è utile tenere un’agenda, cartacea o elettronica, e prendere appunti. E’ importantissimo anche il ruolo della ripetizione di parole o nomi che si tendono a dimenticare, come si faceva da ragazzi per imparare la lezione. Ma gli strumenti sono diversi e ne arrivano in continuazione di nuovi: pensi, per esempio, a quei “brain games” oggi molto in voga che propongono giochi di logica». Servono anche le vecchie parole crociate, i rebus, il sudoku? «Va bene tutto, purché susciti un vivo interesse emotivo. Nessuna attività intrapresa a freddo può essere molto utile: non ha senso decidere a tavolino di imparare il cinese per scongiurare l’Alzheimer. La parola d’ordine è: partecipazione attiva ed emotiva». E per non isolarsi? «Combattere l’apatia, curare la depressione, se c’è. Condurre una vita attiva, ricca di interazioni sociali. Con i coetanei ma anche con i più giovani, per relazioni ancora più stimolanti. Ricordarsi che qualsiasi attività, quanto più è interessante per il soggetto, tanto più inciderà sul suo benessere. E, il più possibile, imparare qualcosa di nuovo». Ad esempio uno strumento musicale? «Be’, la musica, proprio per la ricchezza delle reazioni emotive che riesce a innescare, è particolarmente adatta a questo scopo. Tenga presente che è usata anche nella riabilitazione dei pazienti affetti da demenza». Che altro bisogna fare? «Ridurre i fattori di rischio. Innanzitutto quelli vascolari: tenere sotto controllo l’ipertensione e il diabete, imporsi uno stile di vita sano, curare la dieta, abolire il fumo, camminare a passo spedito 20 minuti al giorno. E’ provato che tra i fattori di rischio rientrano anche l’aumento di omocisteina e il deficit di vitamina B12 e di folati». Succede, ogni tanto, di scordarsi un nome o una parola, anche in età non avanzata. Quando è il caso di preoccuparsi? «Queste dimenticanze sono assolutamente normali. Ma se si ripetono fino a incidere marcatamente sulla vita quotidiana, occorre andare dal medico. E lui, a propria volta, non deve sottovalutare il disagio del paziente ma, se è il caso, indirizzarlo alle Uva, le Unità Valutative dell’Alzheimer». Dottore, questo è un percorso che mette molta ansia, lo sa? «Ma non è il caso di allarmarsi, mi creda. Il medico esamina a 360 gradi, esclude cause secondarie come la depressione o un eventuale disturbo alla tiroide, fa le sue valutazioni. Esiste una condizione, che noi chiamiamo di lieve declino cognitivo, che può restare stabile, evolvere oppure tornare indietro. Spesso basta un cambiamento dello stile di vita per debellarla, lo si è dimostrato sia nelle cavie di laboratorio sia in soggetti con disturbi lievi di questo tipo». E se invece queste dimenticanze rientrassero nei casi «assolutamente normali», come dice lei, c’è un modo per metterle in scacco? «Il più semplice e intuitivo: andare per associazioni, costruirsi delle famiglie di parole. Basandosi sulle assonanze o sui significati emotivi, su quello che fanno riecheggiare nel cuore di ciascuno di noi».