Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 04/02/2011, 4 febbraio 2011
ROVINE TRA LE ROVINE
Di vero ci sono soltanto i ciuffi di erbacce. Tutto il resto è finto: le strade romane in basolato, le facciate dei palazzi imperiali in marmo e sovrastati da imponenti statue, gli archi di trionfo, i quartieri popolari con le case in legno, le colonne e i timpani dei templi. Un impero di cartongesso in rovina, fotografato in bianco e nero da Gregory Crewdson, autore di punta in America, che con queste immagini presenta alla Gagosian Gallery di via Francesco Crispi 16 (da oggi al 5 marzo) il suo primo lavoro in Italia. Le erbacce sono talmente importanti che Gregory racconta di averle protette con un contratto apposito stipulato con gli studi di Cinecittà per impedire che venissero tagliate. Quelli che sembrano scorci dell’ antica Roma sono infatti scene di set cinematografici, fabbricati nel 2005 per girare «Rome», la famosa serie televisiva prodotta dal canale americano HBO. Crewdson li vede durante un suo viaggio in Italia, due anni fa e decide immediatamente di fotografarli. «Fui colpito dal senso di bellezza e malinconia emanato da queste rovine finte nascoste in una città di rovine vere. Le ho viste come il simbolo del mondo che ci circonda, perché viviamo in un momento di grande fragilità, con imperi reali che crollano intorno a noi. Ma volevo raccontare anche un momento difficile della mia vita privata. Queste foto sono state per me una specie di percorso terapeutico. Ho ritratto un universo quasi onirico, fatto di soglie, accessi, ingressi, passaggi, ponteggi. Immagini che rappresentano le proiezioni delle mie paure, ansie, inquietudini, desideri». Detto dal figlio di un celebre psicoanalista di Brooklyn fa un certo effetto. Racconta comunque che al processo psicanalitico ha sempre preferito il lavoro di fotografo. «Credo che tutti i fotografi operino in una condizione privilegiata, perché possono astrarsi dal mondo, incorniciarlo. Cartier Bresson diceva che è un atto barbarico: si prende qualcosa da qualcun altro e lo si isola. Il fotografo si sente attratto dal soggetto, ma al tempo stesso mantiene una distanza emotiva. Tutto questo genera un controllo, un certo equilibrio». A Cinecittà Crewdson ha trovato qualcosa di più: «Un senso di protezione. Questo posto è stato come un rifugio, un luogo fertile e straordinario, un santuario». Si chiama «Sanctuary» infatti la mostra alla Gagosian, che raccoglie ventitré delle quarantuno immagini scattate dall’ artista nel giugno di due anni fa. Rigorosamente in bianco e nero, con una camera digitale che gli permette una straordinaria profondità di campo e una definizione talmente alta che si distinguono i fili d’ erba e da lontano le foto sembrano disegni a inchiostro. «Per creare questa atmosfera intessuta di tristezza avevo bisogno di una luce bassa ed eravamo nel mese più splendente dell’ estate. L’ unico modo era lavorare la mattina all’ alba e la sera al tramonto». A Cinecittà Crewdson instaura anche un nuovo modo di lavorare. Fino ad oggi aveva sempre costruito le sue inquadrature come in un vero e proprio film. Chi ha potuto vedere nel 2007 la sua monografica al Palazzo delle Esposizioni, ricorderà quelle scene a colori, specie di tableaux vivants psicologicamente molto intensi, costruiti con diverse settimane di preparazione, una troupe di centinaia di persone, attori e coreografi. A Cinecittà, dove le persone sono assenti, e le rovine appaiono come le ultime testimoni di un’ umanità evaporata, il fotografo ha rinunciato per la prima volta alla sua folla di aiutanti. «Ho usato soltanto una macchina per fare la pioggia e un’ altra per la nebbia». L’ effetto è una sorta di realismo surreale.
Lauretta Colonnelli