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 2011  febbraio 04 Venerdì calendario

La sorte del Faraone? È nelle mani dei gerarchi - Il secondo giorno della controrivoluzione di Mubarak, l’Egitto è sceso qualche gradino più in giù nell’abisso del caos

La sorte del Faraone? È nelle mani dei gerarchi - Il secondo giorno della controrivoluzione di Mubarak, l’Egitto è sceso qualche gradino più in giù nell’abisso del caos. Il luogo dove si gioca la partita è piazza Tahrir, della Liberazione, all’ombra della fabbrica rosa del Museo Egizio, nel cuore del Cairo. La zona è un’enorme arena dove si scontrano come gladiatori le forze di quella che ormai tutti chiamano Resistenza e gli sgherri di Mubarak. Centinaia di migliaia di persone si affrontano con pietre e bastoni, anche se la notte scorsa le squadracce del regime hanno sparato con armi automatiche uccidendo diverse persone. Molti sono agenti in borghese, come dimostrano le tessere della polizia catturate dalla Resistenza. Mentre nel Colosseo si combatte, intorno si stende una città di 15-20 milioni di abitanti relativamente tranquilla, non fosse per i carri armati nelle vie, le code ai forni e ai distributori di benzina. Ma la canaglia mandata nelle strade dal regime si sta mobilitando e cominciano a segnalarsi violenze anche lontano dal centro. Ieri era chiaro che tra gli ordini ricevuti c’era quello di attaccare i giornalisti stranieri, segno che vogliono allontanare testimoni scomodi. Un fatto ominoso per le manifestazioni di oggi, venerdì islamico. La carestia sta diventando una minaccia anche se ieri il grande mercato all’ingrosso di Souk el Abour era ancora pieno di ogni genere di frutta e verdura accatastata sotto i grandi capannoni. Così come al mercato rionale di El Nasreya, che sembra uscito dalle pagine di Mahfouz, si trovavano ancora mele, carote, pomodori e polli. Sembra che il Faraone, come un dio bestemmiato, si stia vendicando dell’Egitto. Ma probabilmente le cose sono un po’ più complicate. Richard Bulliet, esperto di studi arabi alla Colombia University, ci aiuta a capire con un brillante neologismo: neo Mamelucchi. Sostiene il professore che la forma del sultanato militare, inventato dagli schiavi soldati che presero il potere in Egitto nel XIII secolo, è rimasta viva in tutto il Medio Oriente. Tornando al Cairo che brucia, ciò significa che è difficile immaginare un Mubarak, ormai nell’angolo, decidere da solo le sorti del Paese. Questo è il modo di pensare ingenuo dei sanfedisti della Resistenza che stanno in piazza a farsi spaccare la testa. Nel regime neomamelucco, il capo è solo il volto del consiglio degli anziani. Quando il regime si sente minacciato, gli anziani pensano al loro interesse collettivo. Tramano col presidente, o alle sue spalle, per stabilire quando dovrà andarsene e cercano di pilotare la sua successione per salvare i propri privilegi. La Costituzione egiziana prevede che il vicepresidente prenda il posto del presidente in caso di morte o incapacità. In trent’anni non era mai stato nominato un vicepresidente. Invece adesso abbiamo Omar Suleiman, ex capo dei servizi segreti e guarda caso generale (il fatto che sia molto malato potrebbe anche far pensare che non sia la scelta definitiva). Se anche, come qualcuno sussurra, oggi l’esercito si schiererà con la protesta, non bisogna cadere nella trappola dei militari buoni contro il presidente cattivo. A spedire Mubarak in qualche Paese del Golfo sarà un accordo tra vecchi generali e un piano per riportare l’ordine e concedere qualche riforma. Ieri infatti Suleiman si è detto pronto ad alcune modifiche costituzionali, e lo stesso presidente ha detto alla Abc che è stanco e vuole andarsene. «Rimango per evitare il caos», ha detto. Quando cadrà il Faraone, i militari decideranno i leader dell’opposizione con cui dialogare, garantiranno la massima permeabilità all’influenza di Washington (meglio non essere troppo orgogliosi di fronte a 1,3 miliardi di dollari l’anno in aiuti americani) e l’intangibilità degli accordi di pace con Israele. I neomamelucchi sono ideologicamente flessibili, potrebbero anche aprire ai Fratelli Musulmani: li conoscono da anni, sanno che non sono poi così popolari e che non disdegnano il compromesso. Chi sia stato tra la gente sa che il pericolo del radicalismo islamico è una bufala. L’altro giorno in piazza Tahrir un manipolo di barbuti Salafiti intonava: «L’unica soluzione è l’Islam». I manifestanti li hanno bloccati e convinti a cantare «musulmani e cristiani insieme per l’Egitto». Chiedete a Essiam El Eriam, del comitato politico dei Fratelli, se vuole un Egitto islamico. «Noi vogliamo - dice da democristiano maomettano - condividere il potere con gli altri partiti. Noi accettiamo il dialogo con tutti, anche con l’America che è un Paese democratico». In ogni caso, la miglior garanzia contro il sospetto zelo democratico dei Fratelli è il 20 per cento che non riescono a superare nei consensi. E i cristiani? Neppure loro credono più che Mubarak sia il loro protettore e molti stanno manifestando in piazza Tahrir. Le piaghe del Faraone torneranno a cadere sull’Egitto: il vincitore dovrà affrontare una crisi economica spaventosa con disoccupazione e inflazione alle stelle: molto dipenderà dalla generosità degli amici internazionali. Ma anche loro vorranno qualcosa in cambio.