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 2011  febbraio 05 Sabato calendario

LA SOLUZIONE? NÉ TURCA NÉ IRACHENA

Quale Egitto avremo dopo questa crisi? Lo scenario più apocalittico, “all’iraniana”, traccia un parallelo tra l’Egitto di Mubarak e l’Iran dello scià che nel 1979 fu travolto dalla rivoluzione islamica. Se Mubarak cade, i Fratelli Musulmani prenderanno il potere. In questo scenario si assegna alla Fratellanza una forza paragonabile a quella del movimento creato da Khomeini.

Il capo dei musulmani in Egitto, Mohammed Badia, che ho incontrato mentre prendeva un taxi dietro piazza Tahrir, non possiede neppure lontanamente il carisma e l’influenza di Khomeini: è un conservatore che ha vinto di misura le elezioni a segretario generale contro la corrente più moderata dei quaranta-cinquantenni. L’ayatollah Khomeini non si faceva eleggere da nessuno.

Il vice di Badia, Mohammed Bayoumi, è un pingue professore universitario in giacca e cravatta. I dirigenti sono medici, ingegneri, insegnanti, e rispecchiano una società composita costituita da una borghesia religiosa dove ci sono sia i conservatori che i progressisti. Gli Ikwan, i Fratelli, hanno una forte penetrazione nel sociale, sono la forza di opposizione più organizzata e forse un giorno potrebbero anche prendere la maggioranza.

Ma per loro il primo passo è quello di essere riconosciuti: ufficialmente sono fuorilegge dal 1954. Nel 2005 hanno avuto un quinto dei seggi in Parlamento eletti in liste indipendenti, alla tornata del novembre scorso, per i brogli del partito di Mubarak, sono finiti fuori insieme a tutta l’opposizione.

Nella rivolta popolare all’inizio hanno avuto un ruolo secondario, diventato di primo piano quando si è trattato di occupare e tenere la piazza Tahrir. Ma questa piazza non è tutto l’Egitto. In elezioni regolari si stima che oggi potrebbero avere un seguito del 20-30 per cento.

Il secondo scenario è quello “alla turca”. I militari sostituiscono Mubarak, passano la presidenza a Omar Suleiman e negoziano con gli oppositori una transizione pacifica. Il modello turco è quello dove i musulmani dell’Akp di Erdogan hanno abilmente sfruttato le riforme democratiche per indebolire i generali, custodi dello stato laico, e vincere le elezioni senza però sgretolare i fondamenti della repubblica ereditata da Ataturk. Questo scenario è più accettabile ma l’Egitto non ha mai avuto un Ataturk. Il più laico dei suoi presidenti, che impiccava i radicali islamici, il colonnello socialista Nasser, è defunto quarant’anni fa seguito da presidenti che non hanno modernizzato le strutture amministrative del paese.

In Egitto c’è un esercito forte ma uno stato assai debole. Le forze armate vogliono cambiare il presidente ma non il regime. Sono disponibili a una democratizzazione di facciata, senza scosse. E in questo potrebbero anche trovare l’aiuto dei Fratelli Musulmani che - è bene ricordarlo - nell’87 appoggiarono il secondo mandato di Mubarak. Anzi, se possibile, i militari farebbero compiere al paese anche un passo indietro, restituendo un ruolo centrale all’esercito nei settori chiave della società. In fondo sono state proprio le forze armate a respingere la candidatura di Gamal Mubarak, un banchiere liberista non un militare, alla successione del padre. I punti di contatto tra i generali e i Fratelli Musulmani sono più di uno: entrambi sono elementi conservatori e Suleiman potrebbe essere il loro Jaruzelsky, l’autocrate polacco che formò un governo con Solidarnosc.

La verità è che esiste soltanto uno scenario “all’egiziana” dove la novità non sono i Fratelli Musulmani, con una leadership un po’ scontata, ma la società civile risorta con la generazione Facebook dalle ceneri in cui l’aveva ridotta Mubarak. Forse, più semplicemente, a Tunisi e al Cairo il popolo ha preso in mano il suo destino: e questo fa paura più dell’Islam, a tutti, in Medio Oriente e oltre.