Giorgio Dell’Arti, La Stampa 30/1/2011, PAGINA 86, 30 gennaio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 70 - IL LAMENTO DEI LOMBARDI
Abbia pazienza, per far la rivoluzione mi par poco. Posso farle, se crede, l’elenco delle infelicità lombardo-venete. Sentiamo. Servizio militare obbligatorio di otto anni (anche se si sorteggiavano quelli che effettivamente dovevano partire). Si veniva spediti spesso in paesi lontani. A Milano le truppe erano per due terzi straniere.
In Sant’Ambrogio Giusti chiama i Boemi e i Croati «strumenti ciechi d’occhiuta rapina» . Gli austriaci tenevano segreto il bilancio, dunque non si sapeva ufficialmente quanti soldi prendessero da ciascuna provincia. Ma a Milano, per esempio, il sale costava il doppio che a Vienna. Cesare Correnti, in questo stesso anno 1847: «Sono trentatré milioni ogni anno portati fuori dal paese senza che se ne ottenga altro ricambio che di disprezzo e di insulti. Questi trentatré milioni, uniti alle spoglie opime delle sorelle province venete, sorreggono il moribondo credito dell’ impero». Cioè: forse si sbagliavano, ma la convinzione in quel momento era che il Lombardo-Veneto mantenesse con i suoi soldi il resto dell’Impero. Secondo altri calcoli, la presunta rapina era superiore ai 60 milioni l’anno. Facendo il confronto con gli anni Trenta s’era quasi raddoppiata (e questo era fuori discussione).
Le casse austriache erano in ogni caso malmesse. Per evitare la bancarotta erano stati ridotti - e drasticamente - gli stipendi degli statali.
A differenza di quanto accadeva nel Settecento, cioè prima della rivoluzione, nello stato si faceva carriera alla maniera di oggi, cioè in definitiva per anzianità. I nobili, che un tempo avevano partecipato all’amministrazione soprattutto in ragione dei loro titoli e del loro prestigio, si trovarono a un tratto nella condizione, del tutto nuova, di essere considerati impiegati qualunque: per raggiungere una qualche posizione bisognava aspettare anni. Dopo un primo periodo, s’allontanarono perciò volontariamente dalle cariche pubbliche, troppo faticose e, in quel modo, assai poco onorifiche. Era un patriziato in cerca di riconoscimenti, e questi riconoscimenti non arrivavano. Quindi niente carriera militare, niente carriera diplomatica. Agli osservatori austriaci questo distacco pareva il frutto di una società egoista e materialista, interessata solo al denaro. Giudizi molto severi: «La nobiltà lombarda è corrotta moralmente e ama il dolce far niente», «si comporta da spettatrice nella vita politica e pubblica… spettatrice comunque assai attenta e perspicace… Non è devota al governo, perché lo vede come una forza nemica e come una fonte di limitazione dei propri diritti [...] Non ha vocazione per l’arte della guerra… Si adatterebbe volentieri a ricoprire le cariche più alte che offrono spunto per il prestigio e per la vanità; ma non tollera l’idea della lenta ascesa burocratica negli uffici; dei lunghi anni di attesa [...] Vorrebbe di nuovo i privilegi di cui godeva prima della rivoluzione». Così Carl Czoernig, un ex poliziotto appassionato di scienze sociali e amico di Cattaneo, che nel ’33 scrisse una memoria sulla rivoluzione italiana, rimasta inedita, ma scoperta da Marco Meriggi e poi raccontata nei suoi saggi sul Lombardo-Veneto (la rimando comunque agli illuminanti lavori di questo studioso, per una comprensione profonda del Regno).
Nonostante quello che scrive Czoernig, questi ricchi lombardo-veneti, in gran parte nobili ma anche borghesi che s’erano arricchiti all’epoca di Napoleone, non somigliavano minimamente ai patrizi romani, sfaccendati, giocatori e prossimi alla rovina. Rappresentavano poco più dell’1% della popolazione, possedevano fra il 30 e il 40% delle terre buone (chiamiamola Padania), facevano la bella vita in città, e però o avevano dato in affitto le campagne ai nuovi mediatori capitalisti oppure avevano investito in prima persona secondo logiche moderne, affidandosi cioè ad amministratori capaci che conducevano i fondi impiegando salariati o giornalieri, disgraziati, si capisce, tenuti possibilmente alla fame. Era gente che viveva di commerci - riso, grani, latticini o sete grezze incettate alla grande dai piccoli laboratori o dalle famiglie che, vincendo la nausea, allevavano i bachi in casa -, ma Vienna rendeva complicati questi traffici sia attraverso una burocrazia mastodontica sia per via della limitazione artificiale dei mercati. A parte le sete, che era ammesso piazzare a Londra, il resto doveva essere esportato all’interno dell’Impero e questa circolazione era tenacemente rallentata dalle solite barriere, per esempio tra Pavia a Pontelagoscuro bisognava fermarsi cinque volte, tra Mantova e Parma - 34 chilometri - c’erano sette dogane, eccetera. Gli sbocchi naturali francesi o piemontesi o svizzeri erano impediti in ogni modo. Da ultimo, come sappiamo, era stato colpito il vino. E molti proprietari lombardi avevano terre in Lomellina o nell’Oltrepò pavese. Aggiunga la resistenza di Metternich a connettersi con le linee ferroviarie sarde e l’irritazione di Venezia per la preferenza commerciale data a Trieste. «I danée hinn staa faa rotond per faj birlà», cioè «I soldi son tondi per farli correre». Gli austriaci invece…