MIRELLA SERRI, Tuttolibri-La Stampa 5/2/2011, pagina XI, 5 febbraio 2011
“Kierkegaard mi insegnò a rimorchiare” - «Ma che vuol dire: “Amor, che a nullo amato amar perdona?”»: la domanda la pone per radio Sissi, una fan
“Kierkegaard mi insegnò a rimorchiare” - «Ma che vuol dire: “Amor, che a nullo amato amar perdona?”»: la domanda la pone per radio Sissi, una fan. E mette nei guai lo scrittore Federico Moccia che, esperto di sentimenti ma digiuno dell’ opera del Divin poeta, balbetta: «Cara Sissi, non so su quale muro hai letto questa frase ma ti assicuro che no, non funziona». Niente di vero in tutto questo: è l’ex re del karaoke, il malizioso Fiorello che, via etere, fa l’imitazione del Peter Pan delle lettere italiane, Moccia, lo scrittore che non vuole crescere, adorato dagli under venti e messo sotto accusa dalla critica per il suo piglio naïf e per l’assenza di un consistente background di letture (è in procinto di partire per l’Ariston di Sanremo dove sarà uno degli autori dei testi di Gianni Morandi & company al Festival). Adesso però l’enfant terrible - proprio lui che a 47 anni sembra uno dei suoi stessi adepti, un «moccino» con blazer blu e maglioncino mentre mangia le caramelle rubandole dal tavolino del suo salotto romano - ha fatto il gran passo: con l’ultimissimo parto letterario, L’uomo che non voleva amare , sbarca in libreria con Rizzoli per San Valentino. E’ un thriller sentimentale, ma sbaracca i soliti «adolesce-adolescenti» (ancora Fiorello) protagonisti delle 4 milioni di copie dei suoi romanzi vendute in tutto il mondo e dei film tratti dai suoi libri. Ora sceglie gli adulti, il ricchissimo Tancredi e la seducente pianista Sofia, e anche il sesso volta pagina: non è più quello tra bamboccioni o liceali ma è erotismo con tutti i crismi. Allora Moccia, oggi senza timore di adombrare la sua fama di eterno ragazzo, quanto e quando legge? «Fiorello non posso che ringraziarlo per la sua parodia: mi ha portato fortuna. Però io sono tutto il contrario, sono sempre stato bulimico di pagine scritte. I critici si sono scagliati contro di me imputandomi di non conoscere l’abc della letteratura e i suoi classici, da Tolstoj a Maupassant, di utilizzare un linguaggio poco letterario a ritmo sincopato. Ma forse sono proprio questi addetti ai lavori (o ai livori?) che non hanno mai avvicinato, per esempio, l’opera di una grandissima come Agota Kristof che, in scritti come la Trilogia della città di K. , procede, diciamo così, solo con piccoli passi, con frasi brevissime e stupende. I classici, russi, francesi e inglesi, poi, li ho digeriti eccome e vanno da Dostoevskij a Bulgakov, da Balzac a Stendhal, dalla Woolf a Fitzgerald». Un’autodefinizione di Moccia lettore? «Scrittore e lettore procedono insieme: sono un narratorebetoniera, i libri, da sempre, li trangugio, li mastico, li assimilo e poi li trasformo in cemento, pilastri, strutture portanti dei miei racconti. E mi dispiace per i critici che non se ne sono accorti». Anche Dante nel frullatore? «A sedici anni facevo parte di una conventicola di poeti in erba. Pieni di ambizioni. Avevamo creato un gruppo che si riuniva di notte proprio come la setta dei “poeti estinti”, protagonisti del film L’attimo fuggente , che leggevano composizioni proprie e versi di Whitman ed Emerson. Noi li imitavamo - ho ancora un inedito, il racconto Ultima spiaggia - e aggiungevamo alla lista Dante, Petrarca, Pasolini, Montale e Pavese. Sui banchi di scuola andavo alla grande con Erodoto e Seneca. Ma ero un irregolare. Un giorno il docente di italiano mentre faceva lezione mi becca con un libro di straforo. Quando enuncio il titolo, in classe si scatena la sarabanda. “Moccia sta a legge come se rimorchia”. E il prof: “Ignoranti! Zitti! E’uno dei pilastri del pensiero contemporaneo”. Bella soddisfazione. Era il Diario di un seduttore di Søren Kierkegaard». I suoi amori letterari volavano tutti a quelle altezze? «C’erano anche i romanzoni di Wilbur Smith, con la sua stupenda Africa descritta ne Il destino del leone , Harold Robbins, bravissimo nelle scene di avventura e di sesso come ne Lo stiletto o ne Il pirata . Il titolo del mio libro riprende in parte quello de L’uomo che non sapeva amare di Robbins e gli sono debitore anche per la ricostruzione degli ambienti super lusso in cui vive Tancredi ma lo sono anche al Grande Gatsby di Fitzgerald, uno dei volumi del cuore». «I libri si rispettano usandoli, non lasciandoli stare» è la massima di Umberto Eco. La fa sua? «Da ragazzo erano la mia palestra. Se hai sul comodino Hermann Hesse, Il lupo della steppa eNarciso e Boccadoro , o i romanzi di Ernest Hemingway, prima o poi ne paghi le conseguenze». Che vuol dire? «Sono due scrittori agli antipodi ma entrambi mi ispiravano il fascino del viaggio, soprattutto di quello in solitudine. Vado a Cuba usando come Lonely Planet i racconti di Hemingway, visito la sua casa, i suoi bar, rivivo le sue risse, le ubriacature. Con un colpo di testa decido di fermarmi molti più giorni del previsto e appositamente non avverto la famiglia che mi cerca ovunque. Era un modo di assaporare il piacere del rischio. Non mi facevo le canne, non mi impasticcavo e nemmeno mi stordivo con l’alcol, però la letteratura mi stimolava a cercare la mia carica di adrenalina. Così Una vita nel vuoto di Irwin Shaw - autore anche di Giovani leoni che poi divenne film con Marlon Brando - mi faceva capire che volevo una vita spericolata. Spingevo sull’acceleratore delle moto di grossa cilindrata - come Step in Tre metri sopra il cielo - mi cimentavo con il deltaplano, volavo e credevo di essere immortale. C’era poi Martin Eden di Jack London, con la storia di un marinaio che lotta disperatamente per diventare uno scrittore, sostenuto in questo dal suo amore per Ruth, giovane rampolla dell’alta borghesia di San Francisco: anche questo mi offrirà alcune suggestioni per Step e Babi in Ho voglia di te eTre metri sopra il cielo ». Insomma il lupo o lupetto Moccia, alla faccia dei suoi detrattori, si è sempre aggirato in una foresta di tomi. «Una delle prime scazzottate la devo a Schiavo d’amore di William Somerset Maugham: lo avevo regalato a una fanciulla e il suo partner non aveva gradito. Dopo una lite faccio omaggio dell’ Amico ritrovato di Fred Uhlman, con i compagni c’è sempre stato un gioco di scambi e di citazioni». Tratte anche dai film? Lei è figlio d’arte, di Pipolo, regista di alcuni tra i maggiori successi commerciali della commedia all’italiana tra gli Anni 70 e 80. «Con mio padre frequentavo Cinecittà e a casa c’erano sempre personaggi dello spettacolo, da Adriano Celentano a Renato Pozzetto. Andavo in vacanza ad Anzio, lido della borghesia romana, vedevo American gigolo , La febbre del sabato sera e si ballava alla Irwin Shaw. Frequentavo il cineclub, mi appassionavo a Il conformista , a Ultimo tango a Parigi , tornavo a casa con le sceneggiature dei film di Bernardo Bertolucci e di Woody Allen acquistate alla libreria Il Leuto. In classe senza farmi scoprire, riprendevo con rudimentali telecamerine il docente in cattedra. Dopo questa abbuffata, appena uscito dal liceo, mi dedico al cinema». «Attila flagello di Dio», con Pipolo dietro la macchina da presa, segna il suo esordio come aiuto regista, seguito da tanta tv: firma programmi come i «Cervelloni» o «Ciao Darwin» in cui, al contrario che nei suoi libri, l’immagine femminile viene strapazzata e presentata al suo peggio in tanti dibattiti trash. Se ne pente? «Per niente. Anche qui la letteratura ha un suo ruolo. Per esempio in Ciao Darwin faccio fare ai personaggi un viaggio nel tempo e lo spunto mi viene da Verne che ho divorato da ragazzino ma anche da film come Non ci resta che piangere di Massimo Troisi. Queste nostre realtà - gli uomini scatenati contro il gentil sesso oppure le donne dipendenti dalla chirurgia estetica - esistono a prescindere dalla tivù che semplicemente le rappresenta. Questi programmi sono molto meno diseducativi di tanti talk show dove si urla, non si ha rispetto per il prossimo». Assediato da tanto successo ora ha il tempo di leggere? «Treno, aereo, albergo: un libro a farmi compagnia c’è sempre. Già pronti per il trasloco in Riviera sono: Cecità di José Saramago, Educazione siberiana di Nicolai Lilin e Il filo che brucia di Jeffery Deaver, un thriller che è proprio un filo, una specie di messa a terra per scaricare l’elettricità di Sanremo».