Vari, La Stampa 5/2/2011, pagina 21, 5 febbraio 2011
Roma teme lo zio d’America - Hanno reagito come Nando Mericoni, il giovanottone di «Un americano a Roma»
Roma teme lo zio d’America - Hanno reagito come Nando Mericoni, il giovanottone di «Un americano a Roma». Proprio come il ragazzo interpretato da Alberto Sordi, anche i tifosi romanisti sembrano istintivamente ammaliati dalla suggestione americana: ieri mattina a Trigoria, quaranta ragazzi si sono presentati al campo di allenamento della «Maggica» con grandi vessilli a stelle e strisce, allegramente sbandierati e poi offerti ai giocatori: «Aho’ Arne, firma sta’ bandiera, qui c’è il tuo rinnovo contrattuale pe’ dieci anni!». E persino il glaciale norvegese John Arne Riise è stato al gioco, sottoscrivendo sulla stoffa l’improbabile rinnovo. Lo scatto in pole position della cordata americana per l’acquisto della Roma ha eccitato la tifoseria giallorossa, ma ha spiazzato due «categorie» che hanno sempre messo il becco (e pure qualcosa di più) nelle vicende della squadra: il «generone» romano e l’invadentissima piovra dei politici. Soffre l’indefettibile «generone», quello che da decenni va a sbafo allo stadio, che fa del biglietto gratis uno status sociale e che, a giudicare dal primo tam-tam che corre sui cellulari, è terrorizzato dalle intenzioni fatte trapelare dal nuovo possibile padrone. La prima volta che è entrato all’Olimpico, Thomas DiBenedetto pare abbia chiesto a un amico italiano: «Ma quanto costa il biglietto per quei palchetti alle mie spalle?». Alla risposta («Non costano nulla, sono degli sponsor»), DiBenedetto avrebbe reagito con un’espressione poco incoraggiante per i «portoghesi di Roma». Ma a masticare amaro sono soprattutto i politici che, nel nome della «Roma ai romani», vedrebbero di buon occhio il successo degli Angelucci, il papà Antonio e il figlio Giampaolo, imprenditori delle cliniche private ed editori di «Libero». Rivelatore il comportamento di Gianni Alemanno. Alle prime notizie sull’arrivo degli americani, il sindaco di Roma ha frenato: «I giochi sono totalmente aperti per soggetti nazionali e internazionali». Poi quando la cordata ha preso corpo, lo stesso Alemanno ha iniziato a virare: «Sono felice di constatare che la vendita sta seguendo un andamento positivo». Ma gli Angelucci non demordono, ben sapendo di poter contare su un appoggio bipartisan destra-sinistra, che comprende personaggi della destra come Maurizio Gasparri, l’eterno Gianni Letta, ma anche l’ex premier Massimo D’Alema. D’altra parte gli Angelucci sanno che «la Roma è sempre stata politicizzata - racconta Michele Plastino, il capostipite degli opinionisti delle radiotv cittadine - e lo è stata talora come strumento di consenso, ma soprattutto per una ragione che Giulio Andreotti usava per la politica: il potere logora chi non ce l’ha». A lungo la Roma è stata un orto di Andreotti, che negli anni della Ricostruzione chiese di prendere la presidenza a un onorevole democristiano di Cassino, Pier Carlo Restagno, a un conte, Romolo Vaselli, e poi a personaggi a lui vicinissimi, come Franco Evangelisti (quello del «A’ Fra’ che te serve?»), Giuseppe Ciarrapico, ma anche Dino Viola e Franco Sensi, pur personaggi con una loro personalità. La Roma però non è stata un monocolore Dc: una volta è diventato presidente un «palazzinaro rosso» come Alvaro Marchini, che nel dopoguerra aveva costruito le Botteghe Oscure, storica sede del Pci. E qualche anno fa, quando gli eredi del Pci avevano un terribile bisogno di vendere immobili per colmare il loro deficit, chi si è comprato il palazzo del Bottegone? Guarda un po’, proprio gli Angelucci, che trattarono la vendita con Ugo Sposetti, uomo di (grande) fiducia di Massimo D’Alema. Certo, i tifosi temono la mano morta della politica, ma nessuno può escludere che, dopo l’iniziale infatuazione, proprio come Nando-Sordi, gli ultrà continuino a preferire il maccarone romanesco alla mostarda americana. FABIO MARTINI *** Il marchio oltre l’Urbe la vera sfida yankee - Un progetto industriale capace di ribaltare le logiche di Roma e della Roma. Il paragone con i punti di Wilson è eccessivo, quelli della cordata Usa di Mr DiBenedetto non sono 14 e non servono a disegnare un nuovo assetto mondiale, ma i cinque cardini del piano americano, allorché la trattativa per l’acquisto del club giallorosso finirà in porto, rivoluzioneranno il modo di intendere il calcio nella Capitale e non solo. Lo stravolgimento coinciderà con l’allontanamento della famiglia Sensi. L’uomo venuto da Boston è partito da un concetto: quel brand, «Roma», ha ben altre potenzialità rispetto a quelle sfruttate fin qui. Il limite di esportazione del marchio, secondo lui, ha gli stessi confini della Terra. Il margine di miglioramento si è palesato alla lettura del bilancio d’esercizio della società di Trigoria al 30 giugno 2010, dove la voce merchandising riportava 7,1 milioni di ricavi. Gli Stati Uniti e il SudEst asiatico, per il suo modo di intendere gli affari, sono a un passo dal Cupolone: anche in quei mercati dovranno finire le magliette di Totti, magari con un nuovo sponsor tecnico, forse la Nike, visti i legami di uno dei soci di DiBenedetto con la marca americana. A tal fine, verrebbero sopportate le penali per sciogliere il contratto in essere con la Kappa, rinnovato la scorsa estate fino al 2017. Stesso destino potrebbe essere riservato alla Wind. Prima di tutto gli statunitensi dovranno fare i conti con le perdite che erediteranno: ricapitalizzare, coprire le cifre in rosso, dare una sterzata alle previsioni (35-40 milioni di passivo). La loro offerta, dall’esame di Unicredit e Rothschild, è risultata la più competitiva: non si tireranno indietro. Anzi, già contano di raddoppiare il giro d’affari della Roma, ora inchiodato a 118 milioni. Si sono dati cinque anni per centrare l’obiettivo. Terzo punto: ristrutturazione manageriale e potenziamento della squadra nel rispetto del fair play finanziario. Porteranno dall’America i loro esperti di marketing, per il progetto sportivo hanno già contattato Franco Baldini. Walter Sabatini potrebbe affiancarlo. Montali aspetta di conoscere il suo ruolo. Per la panchina il nome più accreditato è quello di Ancelotti. Da mesi studiano i modelli di Barcellona, Real Madrid e Manchester. Si portano dietro l’esempio dei Boston Red Sox (DiBenedetto è socio della New England Sports Ventures, che controlla sia la squadra di baseball, sia il Liverpool): nella Major League hanno esorcizzato la maledizione di Babe Ruth. Dall’altra parte dell’Oceano vogliono portare al successo anche i calzettoni giallorossi. La costruzione di uno stadio di proprietà, nelle trattative con Unicredit, non è mai stata indicata come una conditio sine qua non. Contano di dare una nuova casa ai tifosi romanisti al massimo entro 5-6 anni. Sarà «leggermente» diversa dall’Olimpico: un camion che vende gadget e maglie fuori dalla Tribuna Monte Mario non si concilia con le loro idee. Il megastore dovrà essere raggiungibile da ogni settore dell’impianto. Sui tabelloni pubblicitari ci saranno altri sponsor. I palchetti verranno sfruttati diversamente. Infine la «cantera». Quella di Guardiola ha fatto breccia nei loro cuori. Anche DiBenedetto vuole sfornare i suoi Pedrito. SIMONE DI SEGNI