MARCO ANSALDO, La Stampa 5/2/2011, pagina 1, 5 febbraio 2011
Se il calcio ha paura dello straniero - La Roma sta per passare agli americani e, come si diceva nei cineforum sessantottini, si apre il dibattito: è un bene che gli stranieri mettano le mani su uno dei club italiani più importanti? Equali rischi si corrono affidandosi a chi è mosso dall’interesse commerciale, pronto a andarsene alle prime difficoltà o dopo le prime razzie? Premesso che non sempre sentiamo porre lo stesso dubbio quando si tratta di aziende in cui sono in gioco migliaia di posti di lavoro e altrettante famiglie, la risposta è che siamo stupiti che gli stranieri siano arrivati così tardi
Se il calcio ha paura dello straniero - La Roma sta per passare agli americani e, come si diceva nei cineforum sessantottini, si apre il dibattito: è un bene che gli stranieri mettano le mani su uno dei club italiani più importanti? Equali rischi si corrono affidandosi a chi è mosso dall’interesse commerciale, pronto a andarsene alle prime difficoltà o dopo le prime razzie? Premesso che non sempre sentiamo porre lo stesso dubbio quando si tratta di aziende in cui sono in gioco migliaia di posti di lavoro e altrettante famiglie, la risposta è che siamo stupiti che gli stranieri siano arrivati così tardi. Anzi la loro ritrosia nell’avventurarsi nel nostro calcio dimostrava che nel sistema non funzionava qualcosa. Non è che adesso funzioni, però l’esempio di Thomas DiBenedetto che parte dagli Stati Uniti perché vede un «bisnìss» è il segnale che, almeno come prodotto, il calcio italiano mantiene un certo fascino. Pensiamo che dopo il primo esploratore ne arriverà un secondo, poi un terzo, e non saranno soltanto americani che campano di traffici sportivi, ma arabi alla ricerca di un nuovo giocattolo o magari cinesi o australiani. Non sarà un’invasione come in Inghilterra. Da noi, a differenza che in Premier League, le società commercialmente più accattivanti sono in mano a famiglie che per il momento non vogliono mollare, al massimo potrebbero cedere una quota di minoranza. Gli acquirenti dall’estero possono invece diventare la soluzione per i club di fascia media, alcuni ancora con blasone e potenzialità, che ciclicamente sono in affanno e non trovano imprenditori italiani disposti a entrare nel pantano che è il calcio. Certo, la cosa non piace fino in fondo. Quando sentiamo parlare di «advisor» viene l’orticaria. Né crediamo che la maggioranza dei tifosi giallorossi pronti ad accogliere DiBenedetto come i loro padri le truppe del generale Clark nel ’44, sappia cosa sono i Red Socks e quali garanzie derivino alla Roma dal fatto che il futuro presidente possiede in parte quella società di baseball. C’è un po’ la nostalgia dei «ricchi scemi», come li chiamava Brera. E dei personaggi folcloristici come i Sibilia e i Massimino, quello che per portare i tifosi del Catania a uno spareggio per la serie A aveva organizzato i «voli charleston». Rassegniamoci, era un’altra epoca. Non lo è già più quella in cui viviamo. Oggi in serie A ci imbattiamo in tanti proprietari che ti chiedi cosa ci stiano a fare su quella piazza. I Della Valle, marchigiani a Firenze. Il giocattolaio campano Preziosi a Genova. Per non dire del friulano Zamparini che non risulta abbia comprato il Palermo perché da giovane stravedeva per Tanino Troja, il centravanti rosanero. Il mito (vero o falso) del tifoso diventato ricco che si regala il sogno di quando andava in curva, cioè vendere e comprare per la propria squadra i giocatori che decide lui, sta tramontando. La molla sono gli affari, spesso scollegati dal calcio ma di cui il calcio diventa la chiave di accesso. E allora cosa importa se chi sta sulla poltrona in sede viene da 500 chilometri o da 10 mila? L’importante invece è che si crei un filtro serio e che si cerchi nei limiti del possibile di bloccare i «pataccari» d’oltreconfine. Ce n’è già abbastanza da noi, non servono rinforzi.