Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 05/02/2011, 5 febbraio 2011
IRAN 1979, EGITTO 2011 ANALOGIE E DIFFERENZE
In Egitto mi pare di rivedere un vecchio copione, quello dell’Iran. Come allora Jimmy Carter, alla fine del 1977, disse che l’Iran era un saldo bastione dell’Occidente, ora Hillary Clinton, qualche giorno prima dello scoppio dei disordini, ha detto che l’Egitto è un Paese «stabile» . Come allora gli Stati Uniti invitarono lo Scià ad avviare un programma di «democratizzazione» , ora Barack Obama chiede a Hosni Mubarak di farsi da parte per una «transizione ordinata verso la democrazia» ; come allora in Iran il primo governo di transizione fu affidato al laico Shapur Bakhtiar, ora spunta in Egitto il laico ElBaradei. Ma dopo Bakhtiar venne Khomeini e tutto quello che, purtroppo, sappiamo.
Stefano Nitoglia
studio.nitoglia@yahoo.it
Caro Nitoglia, fra la crisi iraniana del 1978 e quella egiziana dei nostri giorni esiste una fondamentale differenza. Lo Scià era gravemente malato (morì di cancro nel luglio del 1980), affrontò la crisi con una serie di pericolosi tentennamenti e non poté contare sul sostegno delle forze armate. Mubarak invece ha già affidato alle forze armate egiziane il compito della transizione e non sembra avere altra preoccupazione fuor che quella di andarsene alla fine del suo mandato con il massimo decoro possibile. Non è tutto.
Lo Scià fu abbattuto da un’ondata di protesta dietro la quale si profilava sin dall’inizio la presenza decisiva del clero sciita e del suo leader in esilio, l’ayatollah Ruhollah Khomeini. In Egitto la Fratellanza musulmana mi sembra molto meno bellicosa del passato e non ha un leader carismatico a cui affidare le proprie fortune.
Esiste poi un’altra importante differenza, economica e sociale. Nel 1979, quando lo Scià dovette abbandonare il Paese, l’Iran era un Paese ricco e favolosamente arricchito dal vertiginoso aumento del prezzo del petrolio dopo la «guerra del Kippur» , il conflitto arabo israeliano del 1973. L’Egitto è un Paese molto più povero, privo di grandi risorse naturali e di un’agricoltura che possa sfamare 77 milioni di persone. La rivoluzione iraniana rovesciò il regime anche e soprattutto perché quell’alluvione di denaro, dopo il 1973, aveva ingigantito l’appetito dello Scià per armamenti moderni e faraonici progetti infrastrutturali: una messe di affari e contratti che ebbe soprattutto l’effetto di attrarre a Teheran uno stuolo di affaristi, moltiplicare esponenzialmente il tasso di corruzione del Paese, provocare la rabbia popolare e intorpidire il giudizio critico delle democrazie occidentali sulle sorti del regime. Poco più di un mese fa è uscito dagli archivi britannici il «Browne Report» , una indagine di novanta pagine commissionata trent’anni fa da David Owen, allora ministro degli Esteri del Regno Unito, sulle ragioni per cui la diplomazia inglese non era riuscita a prevedere la crisi iraniana. Il rapporto spiega che i diplomatici di Sua Maestà e quelli degli Stati Uniti erano soprattutto impegnati a sostenere le offerte delle industrie belliche dei loro Paesi e avevano perduto in tal modo la capacità d’interrogarsi sul futuro della monarchia e di affrontare con i loro interlocutori iraniani argomenti imbarazzanti.
Beninteso, caro Nitoglia, lei non ha torto: non bisogna dimenticare le lezioni del passato. Ma le differenze sono spesso più importanti delle analogie.
Sergio Romano