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 2011  febbraio 05 Sabato calendario

«CRESCITA, L’ITALIA PUO’ GIOCARSELA. PIU’ RISORSE? NO, SOLO MENO VETI» —

«What’s wrong with Italy?» (Qual è il male italiano?) questo era il titolo originario del seminario di Davos sul nostro Paese, che poi è stato trasformato in un più neutro «Italy: special case» . L’obiettivo dell’incontro era quello di capire perché l’Italia, una delle principali economie del mondo, uno dei fondatori dell’Europa, un Paese con un marchio ancora fortissimo in molti settori «non è più sugli schermi» , è sempre meno rilevante ai tavoli internazionali, sempre più spesso non compare nei confronti internazionali. Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa San Paolo, nonostante tutto, resta ottimista: «Di una cosa sono convinto, l’Italia può giocarsela...» . Che fotografia dell’Italia hanno scattato i quattro commentatori internazionali (Roubini, Elliott, Bishop e Joffe)? «Con diverse tonalità hanno detto cose tra loro molto coerenti: l’Italia è un grande Paese con indubitabili forze che ne fanno ancora oggi una delle principali economie del mondo con un livello di ricchezza accumulata ancora altissimo, è passata attraverso la crisi meglio di molti altri grazie alla tenuta delle banche e dei conti pubblici, ha fatto riforme — come quella delle pensioni — prima e meglio di molti altri Paesi, ma ha enormi problemi di crescita, di governabilità e quindi di credibilità e reputazione» . Difficile controbattere. «Infatti. E sarebbe stato sbagliato negare problemi che sono oggettivi anche se nella discussione sono emersi molti aspetti positivi, per esempio le opportunità per l’Italia legate alla globalizzazione» . Difesa compatta da parte di tutti gli italiani presenti? «In realtà non è solo il mondo a considerarci meno di ciò che valiamo, ma siamo noi italiani stessi che spesso sottovalutiamo le nostre possibilità. Nella discussione è venuta fuori anche la solita argomentazione che sentiamo mille volte: "... ma in Italia non si può cambiare ... tutto in Italia sta degenerando... nessuna parte politica ha la volontà di guidare il cambiamento... i sindacati... il debito pubblico..."insomma le solite razionalizzazioni per giustificare lo status quo. Atteggiamenti che sorprendono per primi gli osservatori stranieri che sanno bene che altri Paesi hanno problemi ben maggiori dei nostri ma reagiscono con ben maggiore determinazione» . Tutti «nonsipuotisti» ? «Certo che no: in molti abbiamo tirato fuori concrete evidenze del contrario. L’export che cresce a due cifre in molti settori, distretti, regioni d’Italia malgrado la concorrenza internazionale. Il settore bancario che in tempi non sospetti ha saputo trasformarsi completamente, grazie a una formidabile iniezione di concorrenza. Anche la Pubblica amministrazione ha mostrato capacità di cambiamento e il caso delle Poste che ho vissuto dall’interno ne è un esempio» . L’emergenza mondiale numero uno resta quella dei posti di lavoro. L’ultima statistica descrive un’Italia che ha il 29%dei giovani senza lavoro... «Sì, ma che non ha ancora creato il senso di urgenza che meriterebbe. Né a livello europeo né a quello italiano. 20-25 milioni di disoccupati ufficiali in Europa, ai quali probabilmente si aggiungono altrettanti disoccupati non censiti e persone gravemente sotto-occupate, sono una bomba innescata. Da affrontare a livello europeo e con strumenti di intervento comunitario, ma anche a livello nazionale. A casa nostra non stiamo certo meglio, con percentuali drammatiche in alcune regioni del Sud, soprattutto con riferimento ai giovani» . Cosa possiamo fare per attirare più attenzione su questo tema? «Da tempo dico che oltre che del Pil le classi dirigenti di tutti i Paesi devono rispondere anche della loro capacità di creare posti di lavoro. Ormai ripetiamo tutti che il Pil non è sufficiente a misurare la performance di un Paese: cominciamo a corredarlo di un indicatore di occupazione che è un tema che tocca tutti ed è il principale indicatore di benessere sostanziale» . — come si fa a creare occupazione in Paesi come i nostri? Due cose dalle quali partire... «Non ci sono scorciatoie, né bacchette magiche o interventi costituzionali miracolistici. Bisogna lavorare con concretezza su tutti i motori della crescita sostenibile per creare competitività e produttività nelle aziende e a livello di sistema e per garantire, coesione e dinamismo sociale. In tutto il mondo gli strumenti chiave della crescita e dell’occupazione sono l’innovazione e i sistemi di istruzione» . Innovazione e cioè ricerca? «La ricerca è certamente alla base dell’innovazione e le possibili discontinuità che abbiamo davanti a noi sono enormi e probabilmente al di là dell’immaginazione. Dalla biologia che potrebbe un giorno darci petrolio dalle alghe geneticamente modificate, alla medicina ad personam, ai computer con potenza di calcolo incommensurabile, a nuove applicazioni del web o a nuove forme di social network capaci di disintermediare qualsiasi altro settore. Chi saprà anticipare o cavalcare il cambiamento ne otterrà grandi vantaggi, gli altri resteranno indietro» . Ma per creare innovazione non basta la ricerca? «Per essere un sistema innovativo è necessario avere infrastrutture moderne, regole adeguate — ripetiamo di volere il venture capital ma non abbiamo messo a punto la normativa che lo rende possibile —, strumentazione finanziaria coerente e, soprattutto, capitale umano e quindi education, istruzione, formazione» . Di qualsiasi grande problema si parli, alla fine si arriva sempre lì, alla scuola e alla necessità di un profondo ripensamento. «Proprio così, perché sappiamo che da lì dobbiamo passare se vogliamo smettere di sfornare tanti disoccupati, se vogliamo coprire i milioni di posti di lavoro che nel mondo rimangono scoperti per mancanza di competenze adeguate. Se vogliamo rimettere in moto la mobilità sociale» . Ma anche in Italia centinaia di migliaia di posti rimangono vacanti per mancanza di candidati: nelle professioni supersofisticate, ma pure nei ruoli tecnici e nei mestieri più tradizionali... «C’è bisogno di più dottorati di ricerca di livello elevato ma anche di Istituti tecnici superiori e di buone Scuole professionali. In tutto il mondo emerge chiaramente che ciò che la scuola — dall’asilo all’università — deve dare è sempre più diverso da quanto le si chiedeva in passato» . A cosa si riferisce? «Per esempio alla necessità di sviluppare molto di più la creatività e la propensione all’innovazione. Alla necessità di sviluppare approcci di apprendimento collaborativo, interattivo e la propensione ad affrontare in modo sereno la convivenza tra culture. Alla necessità di insegnare prima di tutto a imparare perché in tutti i campi si diventa obsoleti quasi subito. Da questo punto di vista è fondamentale che ragazzi e ragazze vengano messi in condizione di conoscere quali sono i mille nuovi mestieri e professioni: oggi non è così e le decisioni sui percorsi di studio sono spesso orientate a passato invece che al futuro» . Anche qui però ci scontreremo con la mancanza di risorse? «Certo non dobbiamo ridurre le risorse, già scarse. Ma parliamo di interventi che non costano quasi nulla, nel mare magnum della spesa pubblica, che vale 800 miliardi. L’efficacia delle scuole, di ogni ordine e grado, è funzione prima di tutto della qualità e della motivazione degli insegnanti. Oggi per un insegnante non fa quasi differenza — in termini di remunerazione o carriera — ottenere buoni risultati formativi, aggiornarsi, impegnarsi o fare l’opposto. Per prima cosa dobbiamo premiare i bravi insegnanti. Una grande differenza farebbe anche dare maggiore autonomia degli istituti. Di che autonomia parliamo se un Preside non ha quasi voce né nella selezione del suo corpo docente né nella valutazione periodica degli insegnanti a lui affidati. E spesso non ha neanche un euro a disposizione per arricchire o differenziare la sua offerta formativa» . La scuola sì, ma nell’agenda politica italiana il grande tema oggi è il federalismo «Nell’incontro di Davos, come in molte altre sedi, emerge con forza che l’Italia delle statistiche in molti casi non esiste. Siamo il Paese della Ue con la maggior quota di persone con redditi superiori alla media europea, ma anche, purtroppo, il Paese con la quota più alta di persone con reddito inferiore alla media europea. In tanti casi siamo fatti di opposti e la media degli opposti non rappresenta nessuno dei due Paesi reali. Lo dico perché il Federalismo deve permettere di gestire al meglio situazioni del tutto diverse: ciò che serve alla Lombardia in molti casi non è ciò che serve alla Calabria. L’occasione del disegno federalista è una opportunità irripetibile per ridurre evasione e sprechi e per affrontare due riforme urgentissime: quella dei processi decisionali e quella fiscale» . Sta parlando dei processi decisionali della Pubblica Amministrazione? «Processi decisionali istituzionali, legislativi, amministrativi, sia della Pubblica Amministrazione centrale che di quella locale. Le infrastrutture non si fanno prima ancora che per penuria di risorse per l’impantanamento decisionale. Vent’anni per fare un’opera, o anche solo 10, vuol dire rinunciare a crescita, a posti di lavoro, a ricchezza. Dobbiamo cambiare a fondo: dal diritto di veto a tutti dobbiamo passare a un sistema decisionale dove ogni decisione deve avere un chiaro responsabile e tempi definiti. Una riforma che non costa nulla» . Riforma fiscale, intanto si è riaperta l’ipotesi di una Patrimoniale? Lei la vede con favore? «No. Riforma fiscale vuol dire riordino totale tenendo conto delle priorità del Paese. Nessun intervento estemporaneo è opportuno in mancanza di un piano complessivo per la crescita del quale la riforma fiscale è solo uno dei pezzi. Non si possono chiedere altri sacrifici, prima di aver chiuso i rubinetti degli sprechi. Sulle linee del "nuovo fisco"mi sembra che si stia creando un certo consenso: la nuova fiscalità deve essere più leggera su lavoro, impresa ed investimenti, meno diretta e più indiretta, meno centralizzata e più delegata alle autonomie Locali. E, soprattutto, che sappia premiare la crescita, l’occupazione e l’innovazione» .
Nicola Saldutti